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Cambiare prospettiva e, soprattutto, adattarsi ai cambiamenti del proprio corpo richiede una forza che non è di tutti. Ma che bello se lo fosse!
Ho letto di recente un bel post di Avivah Wittenberg-Cox – grande esperta inglese dell’evoluzione del ciclo di vita dovuta a questa straordinaria longevità che sposta sempre più in avanti la vecchiaia giocata, non quella nominale che inizia ancora a 65 anni – in cui decanta l’effetto benefico di un film presentato al Kendal Mountain Festival, Younger – Looking Forward to Getting Older (Più giovani – Non vedere l’ora di invecchiare), sullo sport competitivo nella terza e quarta età. Non tanto per diffondere la cultura della vittoria, sottolinea Avivah, quanto quella della partecipazione, promuovendo una prospettiva diversa sull’invecchiamento. Da “ageing gracefully” abusata espressione che intende “invecchiare senza che si veda” (lottando quindi contro i segni dell’invecchiamento) a una più rivoluzionaria ed energica versione dell’invecchaire in modo diverso, con forza e determinanzione a non perdere le proprie facoltà fisiche e mentali.
C’è un altro di film sul tema – Nyad, doppiato in italiano – che racconta l’esperienza reale di una ex-nuotatrice di 64 anni che decide di tornare a competere e non a una gara qualunque, ma alla sfida verso se stessa: completare per la prima volta nella storia la traversata di 60 ore a nuoto da Cuba a Key West, in Florida, cui da giovane era stata costretta a rinunciare. Questo film con Annette Bening nel ruolo dell’atleta (ex atleta all’inizio del film) e Jodie Foster in quello dell’amica-coach è emozionante per lo stesso motivo per cui lo è Younger – Looking forward to getting older, perché offre una prospettiva diversa sulla terza età, ma a differenza del primo, ha il difetto di un’ossessione per la vittoria che non augurerei a nessuno, tanto meno a 60 anni.
Ma tra non essere ossessionati dal successo e abbandonarsi a un vecchio stereotipo che ci vorrebbe incastonati nel ricordo di una vita vissuta in attesa di andarcene, ne corre. Tanto più nel caso di donne, in una società che a) tende a relegarci nel ruolo di “badanti familiari”, di nipotini o di genitori anziani, tanto che molte finiscono per litigare con se stesse, rimproverandosi la mancanza di quell’istinto alla cura che i più ci vorrebbero in dotazione genetica; b) ci “declassa” da oggetto del desiderio/preda a tappezzeria di dubbio gusto non appena il nostro corpo perde aderenza al modello giovanilistico che regna incontrastato, abbandonandoci a un limbo di trasparenza e inadeguatezza che induce a rimpiangere forme passate e allo stesso tempo a ribellarsi alla loro tirannia. “Women are aged by culture’s concepts of aging rather than aging itself: è il concetto di vecchiaia culturalmente diffuso a invecchiare le donne, prima ancora del loro vero invecchiamento. E’ un’espressione di Margarette Gullette, docente al Women’s Studies Research Center.
Ma i pregiudizi sull’età riguardano tutti, anche gli uomini
E il punto di vista interessante di questi film è proprio il riscatto legittimo di persone più o meno anziane che si ribellano al ruolo che la società offre loro e che, salvo gli spazi di attività che rosicchiamo individualmente, è collettivamente anacronistico. Viviamo 20 anni in più del 1948 ma nessuno ha disegnato come questo guadagno di aspettativa di vita vada investito o tutelato; non ci sono modelli ed essendo i primi a sfiorare esistenze centenarie, ognuno di noi si scrive il cammino da sé, a volte con successo, per lo più incespicando tra ambizioni e contraddizioni. Arriviamo a 65 anni in condizioni fisiche e mentali che non corrispondono all’età “anziana” eppure siamo considerati anziani. E quel che è peggio, spesso ci consideriamo anziani, perché i pregiudizi di cui è intessuta la nostra società sono anche nostri, tanto da defletterli verso noi stessi. Per inerzia, per rassegnazione, per impreparazione a questa nuova longevità, per incapacità di mettere in discussione l’immaginario collettivo novecentesco della vecchiaia che continuiamo a portarci appresso. “Non ho più l’età per…”; “A una certa età non si possono più portare… (tacchi, capelli lunghi, minigonne, ecc.)”; o peggio ancora quel sarcasmo che le persone in età mettono a giustificazione della propria presenza nei contesti lavorativi iniziando qualunque conversazione con un riferimento alla propria “veneranda età”. E’ terribile, se ci pensate, che parta da noi stessi. Anche quando gli altri stessero cercando di guarire dai pregiudizi, siamo noi i primi a mantenerli in vita.
Lo sport ha questo di bello, che se ne fa un baffo di quello che pensano gli altri; se ti alleni, che tu sia vecchio o giovane, il corpo risponde. E se alleni il corpo, ti viene dietro anche la mente, e viceversa. Se pensiamo che la maggior parte dei nostri acciacchi di vecchiaia viene proprio dalla mancanza di movimento che atrofizza la muscolatura, ci fa perdere forza e vitalità e, insieme con tante altre abitudini nocive, induce dismetabolismi che, a lungo andare, generano patologie più o meno gravi, vediamo quanto tenerlo allenato potrebbe cambiare il corso di tutta la seconda parte della nostra vita, fisicamente e mentalmente.
Vedere una donna o un uomo di 60 anni, non atleti professionisti, che attraverso lo sport ritrovano la propria capacità di credere in sé, nei propri muscoli, nella propria concentrazione e alla fine nella meraviglia del “yes we can” è illuminante. Fa capire come sarebbe semplice invecchiare essendo se stessi invece che il l’anziano o l’anziana che gli altri si aspettano.
Ho letto di recente un bel post di Avivah Wittenberg-Cox – grande esperta inglese dell’evoluzione del ciclo di vita dovuta a questa straordinaria longevità che sposta sempre più in avanti la vecchiaia giocata, non quella nominale che inizia ancora a 65 anni – in cui decanta l’effetto benefico di un film, Younger – Looking Forward to Getting Older (Più giovani – Non vedere l’ora di invecchiare), sullo sport competitivo nella terza e quarta età. Non tanto per diffondere la cultura della vittoria, sottolinea Avivah, quanto quella della partecipazione, promuovendo una prospettiva diversa sull’invecchiamento.
C’è un altro di film sul tema – Nyad, presente sulla piattaforma Netflix e doppiato in italiano – che racconta l’esperienza reale di una ex-nuotatrice di 64 anni che decide di tornare a competere e non a una gara qualunque, ma alla sfida verso se stessa di completare per la prima volta nella storia la traversata di 60 ore a nuoto da Cuba a Key West, in Florida, cui da giovane era stata costretta a rinunciare. Questo film con Annette Bening nel ruolo dell’atleta (ex atleta all’inizio del film) e Jodie Foster in quello dell’amica-coach è emozionante per lo stesso motivo per cui lo è Younger – Looking forward to getting older, perché offre una prospettiva diversa sulla terza età, ma a differenza di questo, non ha il difetto di un’ossessione per la vittoria che non augurerei a nessuno, tanto meno a 60 anni.
Ma tra non essere ossessionati dal successo e abbandonarsi a un vecchio stereotipo che ci vorrebbe incastonati nel ricordo di una vita vissuta in attesa di andarcene, ne corre. Tanto più nel caso di donne, in una società che a) tende a relegarci nel ruolo di “badanti familiari”, di nipotini o di genitori anziani, tanto che molte finiscono per litigare con se stesse, rimproverandosi la mancanza di quell’istinto alla cura che i più ci vorrebbero in dotazione genetica; b) ci “declassa” da oggetto del desiderio/preda a tappezzeria non appena il nostro corpo perde aderenza al modello giovanilistico che regna incontrastato, abbandonandoci a un limbo di trasparenza e inadeguatezza che induce a rimpiangere forme passate e allo stesso tempo a ribellarsi alla loro tirannia. “Women are aged by culture’s concepts of aging rather than aging itself: è il concetto di vecchiaia culturalmente diffuso a invecchiare le donne, prima ancora del loro vero invecchiamento. E’ Margarette Gullette, docente al Women’s Studies Research Center, a dirlo.
Ma i pregiudizi sull’età riguardano tutti, anche gli uomini, e il punto di vista interessante di questi film è proprio il riscatto legittimo di persone più o meno anziane che si ribellano al ruolo che la società offre loro e che, salvo gli spazi di attività che rosicchiamo individualmente, è collettivamente anacronistico. Viviamo 20 anni in più del 1948 ma nessuno ha disegnato come questo guadagno di aspettativa di vita vada investito o tutelato; non ci sono modelli ed essendo i primi a sfiorare esistenze centenarie, ognuno di noi si scrive il cammino da sé, a volte con successo, per lo più incespicando tra ambizioni e contraddizioni. Arriviamo a 65 anni in condizioni fisiche e mentali che non corrispondono all’età “anziana” eppure siamo considerati anziani. E quel che è peggio, spesso ci consideriamo anziani, perché i pregiudizi di cui è intessuta la nostra società sono anche nostri, tanto da defletterli verso noi stessi. Per inerzia, per rassegnazione, per impreparazione a questa nuova longevità, per incapacità di mettere in discussione l’immaginario collettivo novecentesco della vecchiaia che continuiamo a portarci appresso. “Non ho più l’età per…”; “A una certa età non si possono più portare… (tacchi, capelli lunghi, minigonne, ecc.)”; o peggio ancora quel sarcasmo che le persone in età mettono a giustificazione della propria presenza nei contesti lavorativi iniziando qualunque conversazione con un riferimento alla propria “veneranda età”. E’ terribile, se ci pensate, che parta da noi stessi. Anche quando gli altri stessero cercando di guarire dai pregiudizi, siamo noi i primi a mantenerli in vita.
Lo sport ha questo di bello, che se ne fa un baffo di quello che pensano gli altri; se ti alleni, che tu sia vecchio o giovane, il corpo risponde. E se alleni il corpo, ti viene dietro anche la mente, e viceversa. Se pensiamo che la maggior parte dei nostri acciacchi di vecchiaia viene proprio dalla mancanza di movimento che atrofizza la muscolatura, ci fa perdere forza e vitalità e, insieme con tante altre abitudini nocive, induce dismetabolismi che, a lungo andare, generano patologie più o meno gravi, vediamo quanto tenerlo allenato potrebbe cambiare il corso di tutta la seconda parte della nostra vita, fisicamente e mentalmente.
Vedere una donna o un uomo di 60 anni, non atleti professionisti, che attraverso lo sport ritrovano la propria capacità di credere in sé, nei propri muscoli, nella propria concentrazione e alla fine nella meraviglia del “yes we can” è illuminante. Fa capire come sarebbe semplice invecchiare essendo se stessi invece che il l’anziano o l’anziana che gli altri si aspettano.
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Cambiare prospettiva e, soprattutto, adattarsi ai cambiamenti del proprio corpo richiede una forza che non è di tutti. Ma che bello se lo fosse!
Ho letto di recente un bel post di Avivah Wittenberg-Cox – grande esperta inglese dell’evoluzione del ciclo di vita dovuta a questa straordinaria longevità che sposta sempre più in avanti la vecchiaia giocata, non quella nominale che inizia ancora a 65 anni – in cui decanta l’effetto benefico di un film presentato al Kendal Mountain Festival, Younger – Looking Forward to Getting Older (Più giovani – Non vedere l’ora di invecchiare), sullo sport competitivo nella terza e quarta età. Non tanto per diffondere la cultura della vittoria, sottolinea Avivah, quanto quella della partecipazione, promuovendo una prospettiva diversa sull’invecchiamento. Da “ageing gracefully” abusata espressione che intende “invecchiare senza che si veda” (lottando quindi contro i segni dell’invecchiamento) a una più rivoluzionaria ed energica versione dell’invecchaire in modo diverso, con forza e determinanzione a non perdere le proprie facoltà fisiche e mentali.
C’è un altro di film sul tema – Nyad, doppiato in italiano – che racconta l’esperienza reale di una ex-nuotatrice di 64 anni che decide di tornare a competere e non a una gara qualunque, ma alla sfida verso se stessa: completare per la prima volta nella storia la traversata di 60 ore a nuoto da Cuba a Key West, in Florida, cui da giovane era stata costretta a rinunciare. Questo film con Annette Bening nel ruolo dell’atleta (ex atleta all’inizio del film) e Jodie Foster in quello dell’amica-coach è emozionante per lo stesso motivo per cui lo è Younger – Looking forward to getting older, perché offre una prospettiva diversa sulla terza età, ma a differenza del primo, ha il difetto di un’ossessione per la vittoria che non augurerei a nessuno, tanto meno a 60 anni.
Ma tra non essere ossessionati dal successo e abbandonarsi a un vecchio stereotipo che ci vorrebbe incastonati nel ricordo di una vita vissuta in attesa di andarcene, ne corre. Tanto più nel caso di donne, in una società che a) tende a relegarci nel ruolo di “badanti familiari”, di nipotini o di genitori anziani, tanto che molte finiscono per litigare con se stesse, rimproverandosi la mancanza di quell’istinto alla cura che i più ci vorrebbero in dotazione genetica; b) ci “declassa” da oggetto del desiderio/preda a tappezzeria di dubbio gusto non appena il nostro corpo perde aderenza al modello giovanilistico che regna incontrastato, abbandonandoci a un limbo di trasparenza e inadeguatezza che induce a rimpiangere forme passate e allo stesso tempo a ribellarsi alla loro tirannia. “Women are aged by culture’s concepts of aging rather than aging itself: è il concetto di vecchiaia culturalmente diffuso a invecchiare le donne, prima ancora del loro vero invecchiamento. E’ un’espressione di Margarette Gullette, docente al Women’s Studies Research Center.
Ma i pregiudizi sull’età riguardano tutti, anche gli uomini
E il punto di vista interessante di questi film è proprio il riscatto legittimo di persone più o meno anziane che si ribellano al ruolo che la società offre loro e che, salvo gli spazi di attività che rosicchiamo individualmente, è collettivamente anacronistico. Viviamo 20 anni in più del 1948 ma nessuno ha disegnato come questo guadagno di aspettativa di vita vada investito o tutelato; non ci sono modelli ed essendo i primi a sfiorare esistenze centenarie, ognuno di noi si scrive il cammino da sé, a volte con successo, per lo più incespicando tra ambizioni e contraddizioni. Arriviamo a 65 anni in condizioni fisiche e mentali che non corrispondono all’età “anziana” eppure siamo considerati anziani. E quel che è peggio, spesso ci consideriamo anziani, perché i pregiudizi di cui è intessuta la nostra società sono anche nostri, tanto da defletterli verso noi stessi. Per inerzia, per rassegnazione, per impreparazione a questa nuova longevità, per incapacità di mettere in discussione l’immaginario collettivo novecentesco della vecchiaia che continuiamo a portarci appresso. “Non ho più l’età per…”; “A una certa età non si possono più portare… (tacchi, capelli lunghi, minigonne, ecc.)”; o peggio ancora quel sarcasmo che le persone in età mettono a giustificazione della propria presenza nei contesti lavorativi iniziando qualunque conversazione con un riferimento alla propria “veneranda età”. E’ terribile, se ci pensate, che parta da noi stessi. Anche quando gli altri stessero cercando di guarire dai pregiudizi, siamo noi i primi a mantenerli in vita.
Lo sport ha questo di bello, che se ne fa un baffo di quello che pensano gli altri; se ti alleni, che tu sia vecchio o giovane, il corpo risponde. E se alleni il corpo, ti viene dietro anche la mente, e viceversa. Se pensiamo che la maggior parte dei nostri acciacchi di vecchiaia viene proprio dalla mancanza di movimento che atrofizza la muscolatura, ci fa perdere forza e vitalità e, insieme con tante altre abitudini nocive, induce dismetabolismi che, a lungo andare, generano patologie più o meno gravi, vediamo quanto tenerlo allenato potrebbe cambiare il corso di tutta la seconda parte della nostra vita, fisicamente e mentalmente.
Vedere una donna o un uomo di 60 anni, non atleti professionisti, che attraverso lo sport ritrovano la propria capacità di credere in sé, nei propri muscoli, nella propria concentrazione e alla fine nella meraviglia del “yes we can” è illuminante. Fa capire come sarebbe semplice invecchiare essendo se stessi invece che il l’anziano o l’anziana che gli altri si aspettano.
Ho letto di recente un bel post di Avivah Wittenberg-Cox – grande esperta inglese dell’evoluzione del ciclo di vita dovuta a questa straordinaria longevità che sposta sempre più in avanti la vecchiaia giocata, non quella nominale che inizia ancora a 65 anni – in cui decanta l’effetto benefico di un film, Younger – Looking Forward to Getting Older (Più giovani – Non vedere l’ora di invecchiare), sullo sport competitivo nella terza e quarta età. Non tanto per diffondere la cultura della vittoria, sottolinea Avivah, quanto quella della partecipazione, promuovendo una prospettiva diversa sull’invecchiamento.
C’è un altro di film sul tema – Nyad, presente sulla piattaforma Netflix e doppiato in italiano – che racconta l’esperienza reale di una ex-nuotatrice di 64 anni che decide di tornare a competere e non a una gara qualunque, ma alla sfida verso se stessa di completare per la prima volta nella storia la traversata di 60 ore a nuoto da Cuba a Key West, in Florida, cui da giovane era stata costretta a rinunciare. Questo film con Annette Bening nel ruolo dell’atleta (ex atleta all’inizio del film) e Jodie Foster in quello dell’amica-coach è emozionante per lo stesso motivo per cui lo è Younger – Looking forward to getting older, perché offre una prospettiva diversa sulla terza età, ma a differenza di questo, non ha il difetto di un’ossessione per la vittoria che non augurerei a nessuno, tanto meno a 60 anni.
Ma tra non essere ossessionati dal successo e abbandonarsi a un vecchio stereotipo che ci vorrebbe incastonati nel ricordo di una vita vissuta in attesa di andarcene, ne corre. Tanto più nel caso di donne, in una società che a) tende a relegarci nel ruolo di “badanti familiari”, di nipotini o di genitori anziani, tanto che molte finiscono per litigare con se stesse, rimproverandosi la mancanza di quell’istinto alla cura che i più ci vorrebbero in dotazione genetica; b) ci “declassa” da oggetto del desiderio/preda a tappezzeria non appena il nostro corpo perde aderenza al modello giovanilistico che regna incontrastato, abbandonandoci a un limbo di trasparenza e inadeguatezza che induce a rimpiangere forme passate e allo stesso tempo a ribellarsi alla loro tirannia. “Women are aged by culture’s concepts of aging rather than aging itself: è il concetto di vecchiaia culturalmente diffuso a invecchiare le donne, prima ancora del loro vero invecchiamento. E’ Margarette Gullette, docente al Women’s Studies Research Center, a dirlo.
Ma i pregiudizi sull’età riguardano tutti, anche gli uomini, e il punto di vista interessante di questi film è proprio il riscatto legittimo di persone più o meno anziane che si ribellano al ruolo che la società offre loro e che, salvo gli spazi di attività che rosicchiamo individualmente, è collettivamente anacronistico. Viviamo 20 anni in più del 1948 ma nessuno ha disegnato come questo guadagno di aspettativa di vita vada investito o tutelato; non ci sono modelli ed essendo i primi a sfiorare esistenze centenarie, ognuno di noi si scrive il cammino da sé, a volte con successo, per lo più incespicando tra ambizioni e contraddizioni. Arriviamo a 65 anni in condizioni fisiche e mentali che non corrispondono all’età “anziana” eppure siamo considerati anziani. E quel che è peggio, spesso ci consideriamo anziani, perché i pregiudizi di cui è intessuta la nostra società sono anche nostri, tanto da defletterli verso noi stessi. Per inerzia, per rassegnazione, per impreparazione a questa nuova longevità, per incapacità di mettere in discussione l’immaginario collettivo novecentesco della vecchiaia che continuiamo a portarci appresso. “Non ho più l’età per…”; “A una certa età non si possono più portare… (tacchi, capelli lunghi, minigonne, ecc.)”; o peggio ancora quel sarcasmo che le persone in età mettono a giustificazione della propria presenza nei contesti lavorativi iniziando qualunque conversazione con un riferimento alla propria “veneranda età”. E’ terribile, se ci pensate, che parta da noi stessi. Anche quando gli altri stessero cercando di guarire dai pregiudizi, siamo noi i primi a mantenerli in vita.
Lo sport ha questo di bello, che se ne fa un baffo di quello che pensano gli altri; se ti alleni, che tu sia vecchio o giovane, il corpo risponde. E se alleni il corpo, ti viene dietro anche la mente, e viceversa. Se pensiamo che la maggior parte dei nostri acciacchi di vecchiaia viene proprio dalla mancanza di movimento che atrofizza la muscolatura, ci fa perdere forza e vitalità e, insieme con tante altre abitudini nocive, induce dismetabolismi che, a lungo andare, generano patologie più o meno gravi, vediamo quanto tenerlo allenato potrebbe cambiare il corso di tutta la seconda parte della nostra vita, fisicamente e mentalmente.
Vedere una donna o un uomo di 60 anni, non atleti professionisti, che attraverso lo sport ritrovano la propria capacità di credere in sé, nei propri muscoli, nella propria concentrazione e alla fine nella meraviglia del “yes we can” è illuminante. Fa capire come sarebbe semplice invecchiare essendo se stessi invece che il l’anziano o l’anziana che gli altri si aspettano.