TORNARE A LAVORARE DOPO LA PENSIONE
L’aumento continuo dell’inflazione con conseguente perdita di potere di acquisto, i rincari previsti per il riscaldamento nel prossimo inverno, la volatilità dei mercati che scombina i piani di investimento a integrazione del proprio reddito pensionistico stanno portando sempre più pensionati a tornare a lavorare.
Negli USA già nel 2019 la percentuale di pensionati al lavoro, uomini e donne, superava il 15%, e tra il 10 e il 15% in altri Paesi in cui il tasso di sostituzione, ovvero la percentuale rappresentata dall’assegno pensionistico rispetto all’ultimo stipendio, è bassa (la media OSCE è del 50%), mentre da noi, a fronte di una contribuzione previdenziale più alta in assoluto, il rapporto tra pensione e stipendio passa al 75%, il più alto in Europa (dati Osservatorio Previdenziale).
Dopo le grandi dimissioni, il grande ritorno
Ma quello che ha fatto parlare i media di “grande ritorno” è la quota di pensionati che dopo la pandemia pensano di tornare a lavorare o l’hanno appena fatto, e quella di persone intorno all’età di pensionamento che decidono di posticipare il momento in cui si ritireranno. L’aumento di queste categorie nel periodo post-pandemico sembra da attribuirsi sia alle ragioni finanziarie ed economiche che abbiamo visto in apertura, sia a un’altra ragione, la ancora maggiore precarietà delle vite dei figli dei pensionati che vivono in una situazione economica ancora peggiore dopo il Covid, in particolare donne o famiglie le cui donne hanno lasciato un lavoro precedente per occuparsi dei bambini o di un grande anziano che non si ha più cuore di mettere in una casa di riposo, togliendo quindi uno stipendio al ménage domestico. Forse anche questo contribuisce a far dire a chi ha l’età della pensione ma vede solo incertezza intorno a sé, continuiamo a lavorare ancora un po’.
Infine c’è anche l’impressione che la pandemia abbia squarciato il velo illusorio di invincibilità che da tempo confondeva i confini della vita nella nostra cultura occidentale. D’un colpo ci si è resi conto della propria fragilità, specie se anziani. Un vento di tempesta ha piegato gli alberi più alti e quelli che non si sono spezzati hanno però percepito che il clima è cambiato e che l’altezza, metafora dell’età, espone a maggiori rischi di fronte a nuovi virus. Potersi permettere cure, assistenza e benessere diventa improvvisamene più impellente e importante di quanto sia mai stato e si decide di ritornare a produrre reddito finché le energie lo consentono.
I lavoro senior rientra in un nuovo ciclo di vita dettato dalla longevità
Il nuovo ciclo di vita disegnato dalla nuova longevità sta producendo percorsi lavorativi diversi, dove il pensionamento è meno nitido e soprattutto non rappresenta più una cesura netta tra vita lavorativa e quiescenza. Con la riforma pensionistica contributiva sarà sempre più importante potersi permettere di continuare a lavorare o riprendere il lavoro a chiamata, a stagione, a tempo determinato, su necessità del lavoratore o dell’azienda presso la quale era impiegato che lo richiama per gestire o integrare un progetto nel quale è cruciale l’esperienza del lavoratore anziano.
Tanto più in un Paese dove il 40% delle necessità di collaboratori espresse dalle aziende non vengono attualmente soddisfatte. Non si trovano competenze specializzate e formazione qualificata che i lavoratori con esperienza potrebbero offrire.
Non a caso il PNNR ha sdoganato la possibilità di lavorare in qualità di consulenti, seppur pensionati, anche per Stato, Regioni, Provincie e Comuni. E, salvo le restrizioni previste temporaneamente per chi si è pensionato con Quota 100 o 102, tutti potremo approfittarne, cumulando redditi pensionistici e redditi da lavoro.
Pensionamento come evoluzione
All’estero si è molto parlato dell’attitudine di Serena Williams nei confronti del “pensionamento” dai campi da tennis. L’atleta ha detto di considerare questo momento non un ritiro quanto piuttosto un’evoluzione fuori dalla sua specializzazione, fuori dai campi in terra rossa verso altri orizzonti di vita che la interessano. Certo, la campionessa ha 40 anni, età che, seppur nel tennis equivalga alla fine della carriera, nella vita reale non coincide con l’anzianità; c’è pur tuttavia uno spunto nelle sue parole che può servire a comprendere come la longevità cambierà anche il modo di lavorare, in assoluto e tanto più negli anni più maturi.
Si faranno lavori diversi nella stessa carriera lavorativa: chi mostra nel CV di essere sempre rimasto nella stessa azienda, se nel passato veniva portato ad esempio di fedeltà e lealtà all’azienda, oggi desta sospetti di scarsa disponibilità al cambiamento, qualità sempre più necessaria in un mondo che gira a velocità esponenziale. Per molte persone già vicino alla soglia del pensionamento, o già pensionate, si apriranno possibilità di lavoro part-time, in proprio o autonomo, comunque indipendente, in sostituzione del vecchio lavoro dipendente a tempo pieno. Negli USA e in UK oltre il 10% dei lavoratori della cosiddetta gig economy (stagionali, temporanei, free-lancer) sono over 55. Un’opzione di lavoro che apre la strada a un prolungamento dell’attività professionale a integrazione del reddito pensionistico, in particolar modo nei Paesi in cui lo Stato, meno incombente sul piano tributario è altrettanto laico sul piano dei diritti dei cittadini, lasciando che istruzione superiore e salute si comprino sul mercato al pari di palestre e assicurazioni. Molti pensionati americani si portano ancora sulle spalle il proprio debito studentesco e con l’inflazione a due cifre sono costretti a interrompere le rate di pagamento dopo aver tagliato il tagliabile, cambiato casa per una soluzione più economica, ridotto le spese voluttuarie e a volte anche quelle non voluttuarie come quelle sanitarie.
Gig economy e donne: più flessibilità, meno remunerazione
Unico neo della gig economy, a detta di un recentissimo articolo del World Economic Forum, la disparità di retribuzione rispetto al lavoro dipendente, particolarmente acuta per le donne. Se le donne in Italia guadagnano in media il 15% in meno degli uomini (settore privato) sembra che nella gig economy globale guadagnino addirittura il 48% in meno, soprattutto nei settori della consulenza e dell’amministrazione. Tradotto in contribuzione e prospettive pensionistiche, per la componente più giovane della gig economy, un vero disastro.
Un mercato flessibile e fluido quello della gig economy che secondo le stime di Mastercard raggiungerà i 455 miliardi di dollari l’anno prossimo e nel 2027 occuperà la metà della forza lavoro americana, con sempre più donne. A prescindere dalla disparità salariale, infatti, l’autonomia oraria e di lavoro in remoto dell’economia informale rende più conciliabile l’attività professionale con gli impegni familiari e spesso offre alle lavoratrici opportunità che nel mondo lavorativo dipendente sono loro ancora pressoché precluse. Secondo l’articolo dell’WEF l’unica strada è aiutare le donne a negoziare compensi più alti, consapevoli che gli uomini lo fanno e li ottengono. E, per quelle donne che non hanno più 35 anni, smontare i pregiudizi sull’età che, associati a quelli di genere, rendono la longevità molto difficile a molte di noi.
Chi di voi ha pensato di proseguire l’attività lavorativa o di tornare a lavorare anche dopo la pensione troverà utile questo link
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