I poeti italiani del ‘900
Perduta la fiducia nei valori tradizionali e nei miti della cultura positivistica, l’uomo della prima metà del novecento, oppresso dalle dittature e dalle guerre, avverte il senso della frustrazione, che si accompagnerà poi all’incomunicabilità ed all’alienazione, tipiche della civiltà di massa.
I poeti ermetici per primi rifiutano il linguaggio e le forme tradizionali della poesia a favore di nuove modalità espressive più efficaci e più consone a trasmettere la nuova condizione. La singola parola deve perciò riappropriarsi della sua dimensione essenziale, deve essere concisa ed immediata, così come nasce dalla profondità dell’anima.
Giuseppe Ungaretti
Ecco che allora nelle poesie di Ungaretti una sola parola concretizza tutto il valore di un’esperienza o di una riflessione. Quella di Ungaretti è una poesia pura, priva di enfasi, lontana dalle regole fisse della sintassi, della punteggiatura e da ogni schema metrico. E’ una lirica breve, lapidaria ed essenziale, basti citare il famoso e splendido componimento, che dice tutto in sole quattro parole: M’Illumino d’immenso.
Con questo verso Ungaretti vuole esprimere la particolare intensità di un momento, purtroppo raro, in cui è riuscito a stabilire un rapporto con il tutto. L’aspirazione a sentirsi in armonia con l’infinito, di cui facciamo parte, è uno dei temi portanti della poesia di Ungaretti. E’ una sensazione che fa sentire il poeta ubriaco/d’universo ( da La notte bella) oppure docile fibra/ dell’universo ( da I fiumi) o ancora un’ immagine/passeggera/presa in un giro/immortale (da Sereno). In alcune poesie quest’ansia di infinito e di Assoluto si traduce nella ricerca di Dio: Chiuso fra cose mortali/ …Perché bramo Dio? (da Dannazione). Se l’uomo è un essere mortale, finito, ed anche chiuso tra cose mortali, come può allora egli aspirare all’ Assoluto, a qualcosa che è estraneo alla sua natura? E’ questa la domanda martellante di Ungaretti!
Egli aveva sempre meditato sul rapporto con l’eterno, ma anche sulle inquietudini, sui conflitti e sulle ansie dell’uomo moderno. In particolare la guerra diventa un tema di riflessione sulla fragilità dell’uomo e sul sentimento di fratellanza, che “rinasce” in una condizionedi estremo dolore. Al non senso della guerra Ungaretti reagisce non solo riscoprendo il senso di fratellanza e di solidarietà, ma anche parlando di amore, di questo sentimento, che diventa ancor più potente, perché nasce in un ambiente di guerra, dove prevale l’odio. Ed ecco che accanto al compagno morto, massacrato, il poeta- soldato non si abbandona alla disperazione, ma scrive parole di amore: ho scritto / lettere piene d’amore/ Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita (da Veglia).
In questi ultimi versi è racchiuso il forte sentimento del poeta per la vita: è quella vitalità, che irrompe prepotente proprio di fronte ad un’esperienza di morte.
Eugenio Montale
Se per Ungaretti la poesia è un mezzo, per andare oltre l’apparenza, per cogliere, sia pure solo in qualche momento, l’essenza della realtà, per Eugenio Montale ( premio Nobel per la Letteratura nel 1975) la poesia può essere o ricerca della verità, senza però poterla mai raggiungere, oppure può essere espressione del male di vivere.
In un periodo del Novecento, in cui agli ideali si erano sostituite le ideologie nazionaliste e massificatrici, per Montale il poeta può solo definire una condizione negativa dell’esistenza: può soltanto raccontare tutto ciò che non siamo, ciò che non vogliamo ( da Non chiederci la parola). Il linguaggio montaliano si arricchisce del correlativo oggettivo di Thomas Eliot nel senso che gli oggetti ed i paesaggi, oltre ad evocare un’ emozione o un determinato stato d’animo, diventano l’ emblema della sofferenza umana. In Meriggiare pallido e assorto la vita è infatti descritta come il seguitare una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Questa immagine del muro, spesso presente nella poesia di Montale, rimanda al concetto del limite, di qualcosa di invalicabile, ed al tempo stesso trasmette l’idea di solitudine e di isolamento dell’uomo moderno.
Di fronte al male di vivere, che condanna l’uomo all’estraneità, all’assenza di significato della vita stessa, come possiamo reagire? Per Montale unico scampo è la divina Indifferenza. Non si può annullare la sofferenza, ma si può solo assumere un atteggiamento, che innalza l’uomo alla divinità, e che consiste nel disinteresse e nel distacco dalla realtà e dalla sofferenza. Ma questa affermazione è puramente teorica: di fatto non è concesso a Montale, ma neppure all’uomo in generale, il raggiungimento di questo stato di indifferenza.
Nonostante il dichiarato nel poeta prevale infatti l’ansia di scoprire lo sbaglio di natura, l’anello debole della catena, che permetta di andare oltre la muraglia e scoprire la verità e quindi il senso della vita ( talora ci si aspetta /di scoprire uno sbaglio di Natura,/il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/nel mezzo di una verità, da I Limoni). Con il tema della ricerca del varco, dell’ anello che non tiene, per raggiungere una verità, Montale rifiuta quindi le certezze illusorie, per andare oltre le apparenze. Nel pensiero e nella poesia montaliano ci sono perciò profonde ambivalenze: la constatazione del male di vivere e la speranza del suo superamento, l’essere vicini a disbrogliare (la matassa) che finalmente ci metta/nel mezzo di una verità e l’impossibilità di afferrarla.
Salvatore Quasimodo
Nelle sue prime raccolte Quasimodo (premio Nobel nel 1959) sviluppa soprattutto il tema della fugacità della vita e della solitudine dell’uomo. Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. In questa solitudine condivisa l’io lirico si riconosce solo, come il resto dell’umanità. Il verbo sta allude ad una condizione esistenziale, definita subito dall’ aggettivo solo. E il sole, che lo colpisce, dando per un attimo l’illusione di serenità, in realtà lo trafigge, tramontando all’improvviso e facendo scendere la sera. Come la sera, così la morte, di cui la sera è simbolo, arriva in modo repentino e fulmineo, per cui con l’ultimo verso Quasimodo pone l’accento sulla precarietà e sulla caducità dell’esistenza.
Con la fine della guerra e del fascismo il poeta utilizza la poesia come denuncia dei mali del suo tempo e soprattutto delle atrocità imperdonabili della guerra. Si allontana così dai temi e dallo stile dell’ermetismo, per abbracciare il neo-realismo. La sua poesia diventa più ideologica e non è ispirata solo dal rifiuto della guerra, ma anche dal desiderio di ridare all’uomo la fiducia nella vita e nel futuro o meglio, detto con le sue parole, di “rifare l’uomo”. L’apertura a questi temi ha comportato perciò sul piano stilistico la ricerca di una nuova forma poetica più comunicativa e capace di maggior concretezza, come si può notare già nella raccolta Giorno dopo giorno del 1949.
A questa raccolta appartiene per esempio il famoso componimento Alle fronde dei salici,. E’ una testimonianza poetica della violenza, che ha caratterizzato gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, esattamente del periodo della resistenza e dell’occupazione tedesca in Italia. Gli orrori della guerra e gli effetti dell’occupazione tedesca sono descritti con immagini molto forti e terrificanti : E come potevano noi cantare/ …a l lamento/ ..d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero ..della madre che andava incontro al figlio /crocifisso sul palo del telegrafo. La parola, lamento, isolata alla fine del verso, mette in rilievo l’analogia tra il lamento, cioè il pianto dei bambini ed il belare degli agnelli ad evidenziare quanto la violenza sia ancora più crudele, se rivolta ai più fragili. Il riferimento ad una madre, che ricorda Maria ai piedi della croce del figlio Gesù, eleva il dolore delle vittime della guerra da una situazione contingente ad una condizione, che diventa il paradigma della sofferenza universale di fronte alle atrocità.
Sei ancora quello della pietra e della fionda,/ .. uomo del mio tempo/….. senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,/.. come sempre, come uccisero i padri :dovrà scrivere deluso Quasimodo in Uomo del mio tempo. Con un linguaggio deciso ed asciutto il poeta denuncia la cattiveria dell’uomo, che non è cambiato nei secoli, ma contemporaneamente vuole risvegliare le coscienze. Da qui il monito che poeta rivolge ai giovani, esortandoli a creare un mondo migliore: Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue/ . …, dimenticate i padri.
Umberto Saba
Le poesie di Saba sono raccolte nel Canzoniere, in cui egli ha saputo trasfigurare liricamente le tristi vicende della sua vita.
Amai trite parole che non uno/ osava. M’incantò la rima fiore/ amore,/ la più antica difficile del mondo: scrive Saba nella poesia Amai, che è un autentico manifesto della sua poetica. Proprio per favorire la comunicazione con il lettore, Saba scelse un linguaggio semplice e quotidiano e riprese le rime e lo stile tradizionali.
Lo scopo della poesia è per Saba lo scavo nell’interiorità dell’uomo alla ricerca della verità ( amai la verità che giace al fondo, da Amai). La verità, che il poeta deve far affiorare, è un sogno obliato, che preferiamo ignorare, per non soffrire, eppure è proprio lei che ci conforta nel momento di dolore (che il dolore/ riscopre amica).
I temi della sua poesia, oltre a Trieste, alla sua città, alla moglie, alla figlia, ai sentimenti ed agli oggetti comuni della vita, riguardano soprattutto i suoi traumi. Saba cercò di ritornare con la memoria al periodo dell’infanzia, per cercare l’origine della sua malattia nervosa e proprio dal suo vissuto ha tratto occasione e materia per parlare dell’ “uomo di sempre” e del suo dolore. Quella del dolore è per il poeta una condizione universale, che affratella tutti gli esseri viventi, uomini ed animali: Quell’uguale belato era fraterno/ al mio dolore. Ed io risposi, prima/ per celia, poi perché il dolore è eterno (da La capra).
Pier Paolo Pasolini
Brutalmente assassinato il 2 novembre 1975 e a cento anni dalla nascita (5 marzo 1922), Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, sceneggiatore e regista, viene riconosciuto come uno degli intellettuali più importanti del secondo dopoguerra. Si oppose a ogni forma di ipocrisia e non esitò a rappresentare ciò che gli sembrava giusto senza i filtri del falso perbenismo.
Con le sue poesie Pasolini ha dato voce a chi non è mai stato ascoltato. Cominciò infatti a scriverle in friulano, nel dialetto parlato dalla gente più umile, ma ancora capace di gesti di umanità e di autenticità. Quando passò a scrivere le poesie in italiano, prese a modello i poeti della tradizione. Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi /abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli: scrive Pasolini in Poesia in forma di rosa. Egli stesso, commentando questi versi, ha precisato che essere una forza del passato non significa identificarsi con esso, ma sentire che il suo essere di oggi ha radici profonde in quel passato. Il riscoprire le nostre radici è per Pasolini il solo modo per trovare poi nuovi linguaggi e nuove identità.
Contrariamente a D’Annunzio non fece della sua vita un’opera d’arte, ma la sua poesia è lo specchio della vita. Tra i vari temi quello dell’amore per la madre ritorna con frequenza da La meglio gioventù e L’Usignolo della Chiesa Cattolica, fino a Poesia in forma di rosa.
In Supplica a mia madre la richiesta d’amore, diventa dominante. La mamma è il ponte verso la vita, verso gli altri, ma è anche l’ancora di salvezza, che non deve mai mancare.
Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame/ d’amore, dell’amore di corpi senza anima: sono versi struggenti che lasciano senza fiato e che fanno riflettere. La madre è insostituibile e questo per un figlio è il sentimento più bello, ma quel cordone ombelicale, che gli ha donato la vita, ora è per lui una catena. Il poeta infatti ha un’infinita fame d’amore, un amore carnivoro che divora i corpi, lasciando le anime intatte, perché l’anima è solo nella madre ed è proprio in questo amore totalizzante che Pasolini vive la sua schiavitù. Come si può constatare il componimento è animato da due forze opposte. Pasolini, sin dall’infanzia è stato schiavo di questo senso/ alto, irrimediabile, di un impegno immenso, imprigionato in una relazione che gli ha trasformato la vita in una condizione di angoscia.
Sono tanti i poeti italiani del Novecento, ma, nell’economia dell’articolo, abbiamo dovuto ricorrere ad una dolorosa selezione, certamente non esaustiva, ma centrata su quegli autori, che la critica concordemente riconosce come punti di riferimento nel panorama poetico del novecento: sono quelle voci autorevoli che hanno segnato la strada per i poeti contemporanei. A chi desiderasse approfondire altre figure di questo periodo storico, consigliamo l’antologia, Poeti italiani del Novecento, a cura di Vincenzo Mengaldo.
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