"Ogni prigione è un'isola" il nuovo libro di Daria Bignardi
Trent’anni di storie tra isole e prigioni, tra incontri e vite vissute, racchiusi in un libro che è un viaggio nel cuore dell’umanità
Dire che il carcere ritorni come una costante nella sua vita è un fatto. Dalla passione adolescenziale per il Conte di Montecristo di dumasiana memoria alla corrispondenza con un condannato a morte americano fino agli anni di frequentazione- per lavoro, per volontariato, per legami familiari – con detenuti di strutture penitenziarie, Daria Bignardi non ha mai fatto mistero del suo stretto rapporto con le carceri che oggi ha racchiuso nel suo ultimo libro, “Ogni prigione è un’isola” (edito da Mondadori Strade Blu). Perché il mondo dietro le sbarre è un microcosmo mai del tutto indipendente dalla realtà per così dire, libera, in una relazione del tutto simile a quella che lega le isole e la terraferma. “Il carcere è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi”.
Il carcere e la vita
“Non è che le prigioni mi piacciano, al contrario. Ma dentro c’è l’essenza della vita: l’amore, il dolore, l’amicizia, la malattia, la povertà, l’ingiustizia…”. Confessa nell’incipit Daria Bignardi, ma non senza essersi prima concessa una certa qual libertà stilistica, accingendosi a raccontare in un’opera ibrida- che è un po’ memoir un po’ narrazione di viaggio, un po’ reportage giornalistico e un po’ immersione storica- un passato non sempre felice che le appartiene e che ci appartiene, districandosi in un percorso intrecciato in maniera indissolubile con la sua vita. Perché nulla accade per caso. A cominciare dal carcere milanese di San Vittore, da sempre suo bizzarro vicino di casa, nel quale lei è entrata la prima volta trent’anni anni fa per raccontare, con la sua trasmissione televisiva di allora, “Tempi Moderni”, le storie dei detenuti poi coinvolti nella rivista da lei diretta e con i quali ha costruito un rapporto duraturo. Che continua ancora oggi dato che Daria Bignardi è tuttora un “articolo 78”, ovvero una persona esterna al carcere che può partecipare ad attività culturali e formative all’interno degli istituti penitenziari.
Un viaggio nell’isolamento alla ricerca dell’umanità
E così in questo libro si susseguono le voci degli uomini e delle donne che sono cresciuti e cambiati negli anni ma che Daria Bignardi ha seguito, lontano da ogni intento didascalico ma solo per far emergere quello che poi è noto a tutti: nessuno si salva da solo, figuriamoci in un carcere. Allo stesso modo, il suo ritrovarsi in quelle isole – Linosa, ma anche Stroboli e Lampedusa-che la vedono pronta a raccontarne le storie riallacciandosi alle altre di chi, i soggiornanti, in quelle stesse isole hanno scontato le loro pene, crea un crescendo di riflessioni e di ricordi che si susseguono senza soluzione di continuità. E c’è posto per tutto. Per le rivolte come per i progetti felici; per la piaga dei suicidi come per la silenziosa condizione delle donne; per le parole degli illuminati e per le redenzioni necessarie. Ma siamo poi così sicuri che non esista altro modo per venire a patti con i propri errori?
Il carcere è lo specchio della società e un avamposto della realtà
Del resto, in carcere c’è la vita così com’è: più che lo specchio della società, il mondo chiuso dietro le sbarre diventa un avamposto scarnificato di quella stessa società di cui amplifica i tratti macroscopici esattamente come avviene nelle situazioni estreme che permettono all’essenza -delle cose, delle persone, dei fatti- di mostrarsi in tutta la sua primitiva elementarità. Daria Bignardi non prende posizione se non nella sua personalissima battaglia contro i tiri, piccoli e invadenti rettili siciliani che infestano la sua casa di Linosa: lascia che sia il buon senso di chi legge a tirare le fila di pensieri che semina desiderosa di scoprire quali frutti poi daranno. Cede la parola a chi, di quegli avamposti, è stato un po’ Caronte, come Luigi Pagano, storico direttore di San Vittore e per più di quarant’anni protagonista nelle strutture penitenziarie più tristemente note della Penisola, che non ha remore a dichiarare l’inutilità del carcere per puntare su altre misure, le sole che possono effettivamente fare la differenza. Una su tutte, le relazioni umane.
Alla ricerca dell’umanità perduta
Ed è un flusso che non trova fine, drammaticamente attuale se rapportato ai fatti che la cronaca porta in primo piano ogni giorno, quello che Daria Bignardi osserva senza cedere alla tentazione manichea di giudicare ma limitandosi a registrare, con sguardo imparziale, quello che le sta davvero a cuore. Perché alla fine ciò che rimane di un libro complesso e a suo modo duro è una strabordante umanità che nemmeno lo spazio risicato di una cella può mettere a tacere ma che, al contrario, si batte per uscire e farsi riconoscere, con indulgenza, per quello che è.
Perché “nonostante le brutture, le carceri e le violenze, non abbiamo smesso di essere uomini”. E questa è la lezione che andrebbe imparata a memoria e messa in pratica ogni giorno.
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