Noi e il denaro, o meglio, il denaro e noi
Molti studiosi, economisti e più recentemente anche psicologi, hanno approfondito il rapporto, più irrazionale e irragionevole che l’opposto, attraverso il quale sviluppiamo la nostra quotidianità con il denaro.
Il denaro è una convenzione
Irrazionale e irragionevole forse perché sconta un peccato originale, quello del simbolismo della moneta e l’atto di fede che esercitiamo per continuare a credere che valga il valore che le attribuiamo.
Il denaro è una convenzione umana, un’invenzione, un’assunzione collettiva che permette di vivere insieme, accettando che uno abbia tutto e l’altro niente. Una convenzione cui abbiamo attribuito quella circolarità che manca all’altra grande convenzione umana, il tempo, che invece è terribilmente lineare. Eppure i due, denaro e tempo, sono strettamente legati.
Il denaro infatti è nato per risolvere due grandi questioni che girano attorno al tempo: tutelare il valore dei beni deperibili che si scambiavano nel baratto prima della sua esistenza e far incrociare domanda e offerta nell’esatto istante della transazione e piuttosto che del bisogno. Se infatti all’inizio dei tempi era facile scambiare farina con latte, o scarpe con pecore, più difficile era allargare questo scambio a persone lontane, senza l’intermediazione di un valore condiviso di quello scambio, ed evitare il deperimento della farina e la finitezza della vita della pecora.
Ecco che quindi, prima sassi e conchiglie, poi monete hanno assunto il ruolo di simbolo di un valore straordinariamente condiviso da tutto il mondo.
Se solo ci riuscisse di mettere d’accordo tutta l’umanità intorno a un concetto meno simbolico e pretenzioso, come il quieto vivere… Comunque grazie al denaro è stato possibile che chi aveva bisogno di farina ricompensasse il proprio interlocutore che quel giorno non aveva bisogno della sua disponibilità di latte con un simbolo, un “pagherò” tanto latte quando ne avrai bisogno. Ma l’interlocutore poteva anche voler scambiare la sua farina con altro, un paio di scarpe, per esempio. La prima domanda che sorse è quanto latte ci vuole per fare un paio di scarpe? Ecco il senso del simbolo e l’unità di misura condivisa: la moneta. Tanto latte tante monete, tante monete tante scarpe. Intermediazione mobiliare: la moneta demoltiplica lo scambio in credito. Non occorre che io che voglio latte abbia le scarpe che tu vuoi comprare, ti do un credito attraverso il quale potrai comprare le scarpe da un terzo che riconosce lo stesso valore allo stesso simbolo.
Il potere del denaro
Qui si inserisce Kathleen D. Vohs, professoressa della McKnight University e della Università del Minnesota che in un recente articolo per Harvard Business Review dice il potere che il denaro ha su di noi è spiegabile nel commercio inventato dai nostri predecessori. L’uomo di Neanderthal e i primi umani sono coincisi sulla Terra per un lungo periodo di tempo (5.000 anni). I primi erano più forti, avevano cervelli più grandi, abitavano la Terra da più tempo; avrebbero dovuto averla vinta sugli umani. Invece furono propri questi a spuntarla sull’evoluzione, perché? Perché, dice la professoressa Vohs, commerciavano più dei Neanderthaliani, di più e più lontano, il che permise loro di scoprire risorse nuove e diverse, utili alla sopravvivenza. In questa logica, la creazione della moneta cade come il cacio sui maccheroni.
Inoltre attribuire un valore condiviso al denaro ha permesso il risparmio e la pianificazione, con un briciolo di quell’arroganza utile a sopravvivere che viene dalla sensazione di poter controllare il futuro.
Forse per questo il potere è associato al denaro (e viceversa), tanto che anche nelle relazioni familiari il denaro “è strumento di affermazione o di negoziazione”, come racconta suggestivamente il libro “La terza faccia della moneta” dello Psicologo e professore dello IULM, Massimo Bustreo, “nella coppia e in famiglia più che altrove il denaro è uno strumento di controllo, il mezzo più immediato per imporre una volontà e quello meno faticoso per definire un valore (Coria, 1986 e 1989; Gambardella, 1998; D’Amico, 2006)”.
Di nuovo Kathleen Vohs. Ha condotto con alcuni colleghi un esperimento chiedendo a due gruppi di persone separati di eseguire un compito: un gruppo si trova ad avere a che fare con il denaro, l’altro no. Le persone che interagirono con il denaro diedero prova di preferire agire da soli che insieme agli altri e la loro performance fu migliore, più resiliente e più duratura. Da un punto di vista aziendale od organizzativo questo è certamente un bene. Ma dentro una famiglia o una comunità molto meno, dal momento che il denaro ci fa essere meno empatici, meno disponibili e meno “condivisivi”. Persino nei bambini in denaro agisce allo stesso modo. In un altro esperimento su due gruppi di bambini dai 3 ai 6 anni, di cui uno ebbe a che fare con monete e banconote e l’altro con pezzetti di carta su cui erano scritti dei numeri, il primo gruppo lavorò al proprio compito in modo più applicativo, intelligente, performante.Ma è la terza ricerca citata da Elizabeth Vohs a colpire di più.
Con i colleghi ha lavorato su gruppi di persone che invece di essere assortiti in modo casuale sono legati da legami affettivi. Solita divisione in due gruppi, solito compito che in un gruppo coinvolge il denaro e nell’altro no. All’interno del gruppo che ebbe a che fare con il denaro ci fu un calo di gentilezza, attenzione, generosità e aiuto reciproci.
Il rapporto con il denaro e con i gesti economici, è sempre Bustreo, è ben poco coerente e cita un famoso quesito che il premio Nobel Kahneman e il collega Tsversky posero in una loro ricerca che ha fatto storia nella finanza comportamentale: è sabato sera, stai andando a teatro per un concerto che tanto hai atteso. Arrivato all’ingresso ti accorgi di aver perso il biglietto per il tuo posto in platea da 50€. Cosa fai? Ricompri il biglietto? Il 54% delle persone ha risposto sì.
Nel caso invece in cui, sempre di sabato sera, stai andando a teatro per il gran concerto che tanto hai atteso e arrivato alla biglietteria ti accorgi di aver perso i 50€ che avevi pronti in tasca. Cosa fai? Compri il biglietto con altro denaro che hai nel portafoglio? Ben l’88% ha risposto sì. Sono sempre 50 euro, il concerto è quello che ti interessa, ma il risultato è diverso perché perdere un biglietto da 50 euro o perdere 50 euro si inseriscono nella nostra psiche in modo diverso.
Il denaro viene da molto lontano e il suo ruolo è profondamente radicato in noi. Tanto da superare il significato oggettivo che la convenzione cui aderiamo gli attribuisce e da influire sui nostri comportamenti e influenzare le nostre relazioni con gli altri, anche con i nostri affetti.
Nel caso del concerto, voi come vi sareste comportati?
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