Longevità al femminile
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Parlare di longevità di genere con riferimento al benessere fisico non è cercare il pelo nell’uovo: le donne invecchiando sviluppano fragilità diverse dagli uomini con l’aggravante, dal punto di vista clinico, di una vita più lunga e una menopausa che invece continua ad arrivare alla stessa età delle nostre nonne. Così tutti gli anni in più che abbiamo guadagnato sull’aspettativa media di vita, 20 circa dal 1950 ad oggi, sono anni in più di menopausa, la quale è sì un fenomeno naturale ma porta con sé un grandissimo scombussolamento ormonale perché vengono a mancare di colpo gli estrogeni che ci hanno protette fino a quel momento. Così aumentano rischi che prima erano bassi, come quello cardio-circolatorio, che oggi detiene il primato di causa di morte tra le donne, e arrivano nuovi rischi come l’osteoporosi o la sarcopenia (perdita di massa muscolare). Le donne in menopausa possono diventare suscettibili a queste condizioni molto più velocemente rispetto agli uomini la cui salute invece tende a declinare gradualmente con l’età. Per questo la ricerca a livello mondiale si sta concentrando sulla salute riproduttiva delle donne, investendo grandi capitali nello studio delle possibilità di ritardare la menopausa.
Aspettativa di vita e aspettativa di vita in buona salute: da campioni a vice-campioni
Partendo dai dati che ci collocano a buon diritto tra i campioni di longevità con un’aspettativa media di vita dopo i 65 anni di 22,9 anni per le donne e 19,7 per gli uomini, osserviamo come l’aspettativa di vita in buona salute dopo i 65 anni ci veda perà solo decimi, con rispettivamente 10,2 e 10,6 anni, sotto a Spagna, Svezia e Germania.
Secondo l’ultimo Quaderno Silver Economy di Itinerari Previdenziali, il 73,7% della popolazione tra i 65 e i 74 anni (e l’86,3% degli ultra 75enni) dichiara di essere affetto da almeno una patologia cronica. Ad eccezione delle malattie allergiche, tutte le altre malattie croniche aumentano con l’età e in generale a svantaggio delle donne.
Sia per la classe d’età 65-74 sia per quella degli over 75 sono infatti soprattutto le donne a soffrire maggiormente di patologie croniche: almeno una per il 75,9% delle donne tra i 65 e i 74 anni contro il 71,1% degli uomini. Tra le over 75 le percentuali passano all’88,3% per le donne e all’83,4% per gli uomini. Se si considerano almeno due patologie croniche, la differenza di genere aumenta con il 52,1% delle donne tra 65 e 74 anni (contro il 39,3% degli uomini) e il 70,7% delle ultra sessantacinquenni (contro il 56,8% degli uomini).
Il nostro Paese è stato tra i primi a promuovere, attraverso lo stesso Ministero della Salute, quella che viene definita medicina di genere o, meglio, medicina di sesso-genere, perché non ci sono solo questioni biologiche ma anche sociali a influire sulle differenze nella salute tra uomini e donne. Lo scopo è quello di individuare le differenze tra i generi rispetto allo sviluppo di patologie e alla reazione ai farmaci per avvicinarsi sempre di più a una medicina di precisione.
Ma la medicina di genere è nata alla fine del secolo scorso, quindi è ancora abbastanza giovane e buona parte delle donne contemporanee non ne possono ancora cogliere i risultati, scontando l’adesione della medicina e della farmacologia del XX secolo al “modello uomo maschio bianco” che ha monopolizzato test e invesmenti di ricerca portando a ritardi e a sviste clamorose su sintomi ed efficacia dei farmaci sul genere femminile e su individui di etnie diverse.
Tornando all’invecchiamento e alla “fragilità” che ne deriva, può essere utile a capirne di più un’intervista a Francesca Baglio – neurologa e tra gli autori dello studio “Differential Roles of Neural Integrity, Physical Activity and Depression in Frailty: Sex-Related Differences” pubblicato su Brain Science – che spiega come la fragilità che accompagna l’invecchiamento, intesa come progressivo decadimento delle condizioni cliniche, sia dovuta a un esaurimento delle riserve fisiologiche dell’individuo, tra cui anche quelle neurali: non è una patologia, quindi, ma una sindrome. E se nelle donne la fragilità è spesso associata al tono dell’umore – e soprattutto alla depressione che colpisce una donna over 75 su due (!) con inevitabili ricadute di tipo cognivo – negli uomini la fragilità tende ad essere più fisica con un’affaticabilità crescente che porta alla sedentarietà, la quale a sua volta può portare a problemi cardiovascolari. Infine, nota la neurologa, è interessante come il decadimento cognitivo negli uomini si concentri nell’area del linguaggio, mentre nelle donne a farne le spese è l’area della memoria.
A tutte queste differenze, alla complessità ormonale e ai profondi cambiamenti imposti dalla menopausa nelle donne, si ispira la Medicina della Longevità di Genere che, non intendendo ripetere gli errori del passato, guarda all’invecchiamento cercando e identificando le differenze tra i generi, con un occhio di riguardo alle donne, soggetti poco considerati nel passato e quindi più bisognose di un approccio di maggior precisione rispetto all’evoluzione biologica nell’invecchiamento.
L’approfondimento sulla fragilità dell’invecchiamento e la ricerca di Francesca Baglio sono disponibili nell’intervista pubblicata sulle pagine di FemGevity, progetto dedicato all’invecchiamento al femminile di SoLongevity.
L’approccio sesso-genere è fondamentale: differenze biologiche ma anche sociologiche
Invecchiamo in modo diverso ma andiamo anche in pensione in modo diverso. Parliamo di differenze economiche. Le donne italiane varcano la soglia di vecchiaia con oltre il 30% in meno di risparmi pensionistici e un’altrettanto spiccata differenza in termini di ricchezza finanziaria. Basta pensare che l’82% delle integrazioni al minimo pensionistico erogate negli ultimi anni sono intestate a donne. Neanche la pensione di reversibilità che si va ad aggiungere alla pensione delle donne che restano vedove riesce spesso a cambiare il quadro economico della vecchiaia femminile.
Le difficoltà economiche hanno un riflesso immediato sulla qualità della vita, del cibo, dell’ambiente domestico e delle cure. A ciò va aggiunto, sempre nel perimetro delle differenze non biologiche, che il 50% delle donne over 75 vivono da sole (la maggioranza vedove, ma anche un numero crescente di divorziate o separate) e che la solitudine è spesso cattiva compagna di vita, contribuendo ad ansia, depressione, decadimento cognitivo e persino demenze.
Tornando alle differenze biologiche:il rischio cardiovascolare è tutt’altro che prerogativa maschile
Le malattie cardio- e neurovascolari sono la prima causa di morte e di invalidità al mondo. In Italia nel 2018 sono state responsabili del 34,8% di tutti i decessi e, a differenza di quanto si creda, uccidono più donne che uomini. La mortalità tra le donne è stimata attorno al 37,7% mentre quella tra gli uomini è del 31,7%, ma la grande differenza la fanno il tempo nel quale si sviluppa il rischio e i tempi di diagnosi.
Le placche aterosclerotiche cominciano a formarsi attorno ai 30 anni e nel tempo aumentano in modo proporzionale all’introduzione di fattori di rischio come il fumo, l’ipertensione, il diabete, l’ipercolesterolemia. La fascia di età più critica per gli uomini è tra i 40 e i 70 anni. Per le donne invece la fase critica inizia quando calano gli estrogeni con la menopausa, la pressione arteriosa e i livelli di lipidi e glucosio nel sangue si alzano e la proporzione fra massa magra e massa grassa si altera. Così arriva anche per le donne il rischio cardiovascolare, 10 anni dopo gli uomini ma allo stesso identico livello, con un rischio addirittura maggiore di ictus. Gli eventi cardiovascolari inoltre sono più rari ma più seri nelle donne, tanto da aumentarne il tasso di mortalità, anche a causa di una sintomatologia diversa che tende a ritardare il ricorso al medico o la diagnosi corretta: non il classico dolore al petto o al braccio, ma nausea, vomito, dolore alla schiena e mancanza di respiro. E’ quindi cruciale che la medicina di genere entri nei percorsi formativi della classe medica tutta e della medicina di urgenza.
Altre differenze nella salute delle donne senior rispetto ai coetanei uomini
Dalla menopausa in poi le donne iniziano anche a soffrire di diabete di tipo 2, malattia che può portare a infarto e scompenso cardiaco, si ammalano di gotta e sono più inclini a sviluppare Alzheimer (mentre gli uomini sarebbero più inclini al Parkinson). Ma le differenze si evincono anche nel modo in cui gli organi invecchiano nei due generi, con la funzionalità renale più soggetta a un peggioramento negli uomini mentre nelle donne tendono ad aumentare i lipidi: che invece negli uomini restano costanti. E infine la già citata osteoporosi: in Italia ne soffrono 5 milioni di donne e 800 mila uomini, questi però con maggior rischio di frattura.
Dalle differenze biologiche, un diverso modo di reagire ai farmaci
Le differenze biologiche tra i sessi si fanno anche sentire nell’assunzione dei farmaci. Il PH degli uomini è più basso di quello della donna, quindi lo stomaco maschile che riceve il farmaco è un ambiente più acido e questo ha effetto sull’efficacia e i tempi di azione di farmaci basici o acidi con assunzione per bocca. Nelle donne la motilità gastro-intestinale è più lenta e questo impatta l’effetto del farmaco. Addirittura gli enzimi sono diversi: gli enzimi che metabolizzano gli andepressivi sono in genere più numerosi nell’uomo, mentre quelli che metabolizzano le statine sono in media più presenti nella donna.
Le differenze non sono solo tra i generi ma anche relative allo stesso genere, almeno nelle donne. La stessa donna in gravidanza, durante il ciclo o in menopausa – o fuori da questi tre casi – è ormonalmente diversa a seconda della condizione, diversità cui si aggiungono modificazioni dovute a terapie contraccettive per bocca o ormonali sostutive. Diversi quadri ormonali che a loro volta influiscono anche su quegli enzimi di cui parlavamo prima che nel fegato sono responsabili della metabolizzazione dei farmaci.
E infine, può essere che la menopausa c’entri anche con la memoria e il declino cognitivo?
Può essere. La scienza medica collega l’efficienza cognitiva ai mitocondri, organelli della cellula cui è demandato il ruolo di produrre l’energia di cui il nostro organismo e il nostro cervello hanno bisogno per funzionare e sembra che il calo degli estrogeni che porta con sé la menopausa possa alterare la capacità dei mitocondri di produrre energia. E’ quanto risulta da un recente studio di ricercatori dell’Università di Illinois che hanno esaminato 110 donne in fase post-menopausa osservandone la memoria e una serie di marcatori mitocondriali: il risultato è che ci sarebbe dunque una correlazione tra ridotte funzioni cognitive, tra cui la memoria, e mitocondri meno efficienti.
Vorremmo chiudere con una frase della neurologa Francesca Baglio dall’intervista pubblicata su FemGevity: “L’approccio migliore è sempre muldimensionale, fisico e cognitivo insieme, che tenga conto del genere, e personalizzato a seconda di chi abbiamo di fronte”.
SoLongevity suggerisce: NeuroProtection
Eccezion fatta per gli andepressivi, la nutraceuca può essere di aiuto per prevenire problemi di memoria e di concentrazione, oltre che potenziare le funzioni cognitive e regolarizzare il sonno. Determinati principi attivi e loro combinazioni agiscono contro i meccanismi dell’ossidazione, o favorendo il benessere dei vasi sanguigni e, di conseguenza, della perfusione cerebrale: per esempio i precursori del glutatione come la polidatina, l’N-Acetil Cisteina (Nac) ed altri aminoacidi combinati che sono molto utili per contrastare la cosiddetta nebbia mentale.
NeuroProtection, grazie alla combinazione di questi elementi, è utile per il recupero delle energie mentali grazie all’azione neuro-modulante e rilassante dei componenti della sua formula che forniscono sia un contributo sinergico su stress ossidativo ed infiammazione che un contributo individuale sul metabolismo neurovegetativo e quello dei neurotrasmettitori.
E’ quindi utile in casi di:
● difficoltà di concentrazione mentale
● affaticamento Cognitivo
● disturbi del Sonno
● affaticamento e disturbi da post-Covid
● comportamenti e stile di vita “pro-ossidanti”: fumo, dieta ipercalorica, sedentarietà
● familiarità con patologie neuro-degenerative
● inizio di Mild Cognive Impairment (MCI) diagnosticato (deficit cognivo).
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