L'onda dimissionaria arriva anche in Italia (+85%)
Pensavamo che da noi non sarebbe arrivata? E invece eccola qui, la great resignation italiana: quasi raddoppiate le dimissioni negli ultimi 12 mesi e, forse ancora più illuminante, il 30% dei candidati a un posto di lavoro dichiarano fin da subito che sono disposti ad accettare solo un contratto da free-lancer, da consulenti a contratto, e il 75% domanda comunque se sarebbe possibile. Non basta più quindi la flessibilità di orario e di luogo con il remote working. Vogliono essere autonomi. Non c’ho mica padroni me, diceva Flavio Bucci nei panni del pittore ribelle Ligabue. Così i lavoratori italiani, soprattutto i più giovani.
Le indagini parlano chiaramente
Secondo l’indagine mondiale periodica Workmonitor di Randstad, il 29% dei lavoratori italiani sta cercando un nuovo lavoro, collocando l’Italia al terzo posto nel mondo, ma questa percentuale arriva al 38% se restringiamo il bacino alla fascia di età tra i 25 e il 34 anni. E un altro 24% sta pensando di cambiare lavoro, sempre con i picchi maggiori tra i lavoratori più giovani.
Quindi, a conti fatti, il 54% dei lavoratori è scontento dell’impiego che ha e cerca o medita di cercare altro altrove.
La vita privata deve andare d’accordo con quella lavorativa
Oltre un terzo, il 36%, ha cambiato lavoro perché l’impiego precedente non si adattava alla propria vita privata, il 51% nella fascia di età 18-34 che dichiara. La metà dei lavoratori più giovani sarebbe disposto a lasciare il lavoro se questo impedisse loro di godersi la vita.
Sarà perché solo il 19% nell’ultimo anno ha ricevuto un aumento di stipendio, posizionando il nostro Paese in coda alla lista mondiale con un penultimo posto e all’ultimo per distribuzione di benefit, ancora tra gli ultimi sull’accesso a flessibilità di orario e di luogo di lavoro. Come se non bastasse, l’indagine segnala una grave penetrazione di alti livelli di stress, tanto che il 67% (sic!) riferisce che problemi di salute mentale si stiano ripercuotendo sulle proprie prestazioni lavorative.
Il lavoro come mezzo di realizzazione e non come fine
Cosa sta succedendo? Che il lavoro non soddisfa pienamente la vita personale e non è più al centro del mondo. Non definisce l’individuo come è successo per vari decenni perché l’individuo adesso si definisce da sé, tramite altri aspetti della vita.
Per comprendere basterebbe semplicemente mettere in fila un paio di fattori cruciali:
- Il Covid ha ricordato violentemente a tutti che siamo fragili, facendo a pezzi quell’illusione di eternità e immanenza insieme, tipica di chi guarda solo il proprio ombelico, ridando alla vita l’importanza di un dono prezioso
- Le generazioni più giovani hanno vissuto due crisi economiche, hanno visto genitori, parenti e amici perdere il lavoro, e molti di loro hanno avuto esperienza di lavori che assomigliano a uno stato di sudditanza, pagati una miseria e trattati come esseri inferiori perché stanno ancora imparando – qualche giorno fa uno chef famoso ha detto che i ragazzi che entrano nella cucina di uno chef per imparare non dovrebbero essere pagati per niente…
- Ciò si traduce, come spesso succede ai più giovani in questa società senza più illusioni, nel diventare più realisti del re: io lavoro, tu mi paghi, se posso lavoro in proprio, se mi vuoi mi affitti, altro che fedeltà.
- La proverbiale fedeltà dei lavoratori più senior, per contro, è nata prendendo esempio dalla generazione silenziosa, quella che oggi ha 80 anni e più, che leggeva il libro Cuore, considerava il lavoro espressione di un ruolo sociale, il sacrificio dimostrazione di dignità, in un’epoca in cui si entrava in un’azienda e vi si restava tutta la vita. Cose che chi è nato 20/30 anni fa non ha conosciuto, vivendo di precarietà assoluta, che il Covid ha elevato a potenza. Così affidano alla qualità della propria vita personale lo stesso valore che altri riconoscono, o forse sarebbe meglio dire ormai riconoscevano, al lavoro, al ruolo sociale, al sacrificio.
- Dopo il Covid, molte aziende si sono affrettate a ripristinare la vecchia normalità, come se un anno di lock-down e lavoro in remoto non avesse cambiato la percezione delle modalità del lavoro nelle persone. Così il 76% dei lavoratori italiani auspica flessibilità d’orario e il 70% di luogo, ma le aziende offrono flessibilità d’orario solo al 50% dei casi e di luogo al 40%.
- Le aziende si lamentano che manca forza lavoro qualificata ma solo per il 65% il lavoro attuale offre le giuste opportunità di formazione.
Un fenomeno globale
Non che nel resto del mondo la situazione sia poi molto diversa, salvo che per la media di aumenti di stipendio negli ultimi 12 mesi che vede, a livello globale, un 36% contro il nostro 19%. Per il resto, da noi il 23% ha avuto un’opportunità di sviluppo o formazione contro il 25% media globale, il 22% flessibilità di orario contro il 26% globale e il 26% di luogo contro il 28% globale.
Come dire che mentre il mondo dei lavoratori, tra tamponi obbligatori e camion che sfilavano con le salme dell’epidemia, hanno vissuto una vera e propria epifania che ha rimesso in discussione valori ed equilibri, ruolo della casa e della famiglia, in quegli stessi mesi le aziende, forse troppo occupate a fare i contro con la più grande battuta d’arresto della storia del loro business, non hanno riflettuto abbastanza e adesso, invece di essere loro a scegliere tra i candidati a un’offerta di lavoro, sono questi ultimi a scegliere l’impresa.
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