La sfida della super-age
Bradley Schurman, autore del libro “The Super Age”, ospite di Cocooners, ci racconta come la demografia sta cambiando le nostre società
Due sono le spinte contemporanee più rivoluzionare del nostro sistema di vita: il cambiamento climatico e il cambiamento demografico, e secondo Bradley Schurman, esperto di questioni demografiche oggi anche consulente del Governo USA, sono fratelli: entrambi infatti sono figli della rivoluzione industriale, vengono da lontano perché sono in atto da molto tempo e ci vorranno minimo 25/30 anni per iniziare a invertire le tendenze. Ma cosa intende Bradley Schurman con cambiamento demografico? Si riferisce non solo al continuo aumento dell’aspettativa di vita ma anche alla denatalità che, seppur particolarmente sentita in Europa e in Italia, comincia a interessare tutto il mondo, portando alla diminuzione della popolazione di interi continenti.
Longevity
Il miglioramento delle condizioni di vita e gli sviluppi della medicina rendono possibile vivere molto più a lungo e portano alla diffusione di una maggiore educazione scolastica, soprattutto per le donne che in precedenza ne erano quasi escluse, rallentando e spostando in avanti i grandi appuntamenti della vita come la maternità: maggiore educazione, maggiori aspettative di qualità della vita a un costo però più alto che mai, ma anche incertezza e dispersione dei nuclei familiari a causa di una maggiore mobilità, agiscono in direzione opposta all’effervescenza del dopoguerra che ha creato il baby boom dei primi anni ’60, quando di bambini ne nascevano così tanti che tutto il Paese era impegnato a crescere per offrire loro un futuro: più bambini più lavoratori, più lavoratori, più lavoratori più produttività, più produttività più consumi. Baby boom e boom economico hanno viaggiato insieme per qualche anno nel nostro Paese. Nel 1961 in Italia nasceva 1 milione di bambini, l’anno scorso i nuovi nati sono stati 393.000. D’altronde, possiamo ancora dire di vivere in un Paese (mondo) impegnato ad accogliere tanti bambini?
Aumenta l’aspettativa di vita e, con l’ingresso dei Boomers, i bambini di 60 anni fa, nella fase della vecchiaia, aumenta anche la massa critica degli anziani. Nel frattempo nascono sempre meno bambini. Cosa comporta tutto questo non solo in Italia ma in tutto il mondo?
Riduzione della popolazione
Dopo un secolo che ha visto un aumento della popolazione da 2 a 8 miliardi, assistiamo alla riduzione della popolazione di moltissimi Paesi: il tasso di fecondità delle 15 nazioni in testa alla classifica mondiale per valore di Pil è inferiore al cosiddetto tasso di sostituzione demografica, quei 2,1 figli per donna che terrebbero in equilibrio la popolazione. L’Europa è all’1.5, l’Italia all’1,24 e la sua popolazione in calo: entro il 2050 saremo poco più di 52 milioni, l’11% in meno di oggi.
Spopolamento di alcune zone
La riduzione nel numero di figli si associa anche a un altro grande movimento mondiale, quello dell’urbanizzazione: i giovani si trasferiscono dalle zone rurali alle città alla ricerca di migliori condizioni di lavoro – e di sicurezza nel caso delle migrazioni dalle zone interessate dai cambiamenti climatici – sempre di più verso altri Paesi attraverso le migrazioni economiche. Gli anziani che si ritrovano soli nelle aree rurali dove hanno vissuto, se possono raggiungono i figli per convivere con loro nelle città dove giocano il ruolo chiave di un welfare (familiare) che a certi livelli socio-economici sul mercato sarebbe inaccessibile. Tanti altri restano nelle loro zone di origine che invecchiano finché si spopolano.
Contrazione della forza lavoro
Nello scenario in cui non cambi la nostra politica immigratoria le proiezioni danno un calo di 4 milioni di lavoratori sugli attuali 23 milioni entro il 2042: 17% in meno in soli 20 anni, il che si va ad aggiungere alla percentuale più alta d’Europa di inoccupati (non disoccupati, ma persone formalmente senza lavoro che non lo cercano).
Invecchiamento della forza lavoro
Non solo la popolazione lavorativa si riduce ma, inevitabilmente, invecchia, alzandosi l’età media. Le aziende devono quindi sviluppare politiche di inclusione che migliorino le condizioni di lavoro, le mansioni, i ritmi e il welfare dei lavoratori più senior e strategie aggiornare le loro competenze e trattenerli, contrastando così la mancanza di risorse. Anche in questo siamo in fondo alla classifica europea con solo il 53% di persone tra i 55 e 64 anni che ancora lavorano, contro una media UE del 62% e Paesi come Germania, Olanda e Svizzera che superano il 70%.
Aumento dei costi previdenziali
E’ evidente che la situazione di cui abbiamo parlato fin qui, in particolare lo squilibrio tra anziani e giovani, metta in crisi i sistemi previdenziali, particolarmente nei Paesi come il nostro il cui sistema pensionistico pubblico é ancora a ripartizione, il che significa che sono i contributi degli attuali lavoratori, in diminuzione, a sostenere le attuali pensioni, in aumento. A prescindere dal già grave mancata corrispondenza tra quanto realmente contribuito dai pensionati attuali e quanto ricevono moltiplicato per gli anni di pensionamento (che possono ormai essere anche 25/30), appare chiaro che un numero decrescente di lavoratori farà sempre più fatica a sostenere un numero crescente di pensionati, con il grande dubbio di fondo: cosa ne sarà dei giovani all’epoca della pensione? quando potranno andarci data la discontinuità, anche contributiva, delle loro carriere?
Grande pressione sul welfare pubblico
Invecchiamento della popolazione e maggiore longevità espongono i conti pubblici del servizio sanitario e di welfare a grande stress per far fronte all’assistenza necessaria per patologie invalidanti legate alle età e cura di quelle croniche: si vive più a lungo infatti, ma con più patologie croniche con la quali ormai siamo in grado di convivere, non senza che ciò pesi sulla sanità pubblica.
Maggiore indebitamento e maggior onere sul debito dei Paesi più anziani
I maggiori costi di cui abbiamo appena parlato si incrociano con un aumento dei tassi di interesse deciso per contrastare l’inflazione che mettono in grande stress la tenuta stessa dei Paesi e il loro rating da parte delle agenzie di valutazione del merito creditizio nazionale, innescando una spirale che può mettere in grave crisi l’economia.
Cosa si può fare?
Gli esempi portati da Bradley Schurman alla discussione disegnano una geografia di interventi pensati per lavorare in sinergia perché l’invecchiamento della società è un fenomeno che interseca tanti, troppi settori della nostra vita comunitaria perché possa funzionare una sola ricetta.
Partendo da una politica strategica di regolamentazione dell’immigrazione da non confondersi con la doverosa condivisione dell’accoglienza ai profughi, si passa per una revisione del modello di lavoro e di gestione delle risorse umane, promuovendo il lavoro senior pur nel rispetto delle mutate esigenze rispetto ai lavoratori più giovani: lavorare più a lungo (andare in pensione effettivamente più tardi) ma anche facilitare con contratti di collaborazione part-time o a progetto la continuità di attività lavorativa ai lavoratori senior che, pur pensionandosi, non intendono restare inattivi.
Bradley Schurman porta l’attenzione sulla necessità di una revisione anche del sistema pensionistico, suggerendo per esempio la possibilità di attingere al proprio gruzzolo contributivo in caso di inoccupazione (per licenziamento o per esigenze di aggiornamento formativo) e restituendo le risorse attinte attraverso un prolungamento dell’attività lavorativa. Oppure, e questa è un’annotazione dell’autore, perché no premiare il prolungamento dell’attività lavorativa con prestazioni di rimborso di parte delle spese sanitarie (es. ticket) e iscrizione a programmi mutualistici di tutele Long Term Care.
In conclusione
Bradley conclude suggerendo una profonda riflessione collettiva sul modello della crescita economica, chiaramente messo in discussione da una demografia in declino: è davvero obbligatorio crescere o lo è solo nella logica di una società capitalistica? E’ obbligatorio misurarci in punti di Pil? Considerare una popolazione in diminuzione una iattura a fronte di un pianeta che non ce la fa più a sopportarci? E se immaginassimo un diverso modello di società in cui è la qualità – non la quantità – a valere, dove il metro di giudizio del prodotto interno lordo venga integrato con indici che esprimono la qualità della vita dell’individuo? Un mondo in cui l’Italia guiderebbe la classifica per qualità del cibo, della vita in famiglia, del sistema di welfare universale, della educazione scolastica universale, del sistema sanitario nazionale, prima che decidessero di farlo a pezzi… Tutti i nostri difetti improvvisamente conterebbero molto meno di tutte le nostre virtù e forse verrebbe voglia di investire per conservarcele.
Per rispondere alla trasformazione demografica restando nel modello produttivistico della nostra società, bisogna attivare un mix di interventi che chiamano in causa governo, imprese e la responsabilità individuale di ogni cittadino verso il proprio benessere. Interventi capaci di generare sinergie e benefici a cascata e di creare circoli virtuosi. Over 65 che restano attivi e continuano a lavorare continuano a pagare le tasse che sostengono la nostra economia, si ammalano meno e invecchiano in migliori condizioni; tutta la classe medica è d’accordo su questa linea. Stando meglio pesano meno sugli ospedali e sul sistema sanitario nazionale, alleviando un Paese già molto indebitato in un momento di aumento dei tassi di interesse. Ma senior che stanno bene e sono attivi nutrono desideri e bisogni molto variegati che, continuando a guadagnare, vengono soddisfatti con consumi a loro volta fondamentali per l’economia.
Infine, senior integrati, in buone condizioni e con in tasca il denaro per vivere dignitosamente avrebbero un ruolo nello scambio intergenerazionale, sul lavoro e nelle famiglie, che stimolerebbe le imprese a innovare, a creare nuovi prodotti e nuovi servizi e persino nuovi modelli di lavoro e di evoluzione, contraddicendo l’idea che un Paese con pochi bambini sia un Paese destinato a perdere il treno della produttività e dell’innovazione (che non è solo tecnologica) e creando un’economia della longevità per rispondere ai cambiamenti che questa comporta nel nostro stile di vita.
La chiave in questo senso è l’estirpazione di pregiudizi verso l’età che ci portiamo dietro dal secolo scorso in modo curiosamente selettivo. Il nostro immaginario sulla vecchiaia è ancora fortemente legato a cliché vecchi e desueti.
Però ci dimentichiamo che negli anni 50, quando l’aspettativa media di vita era di 65 anni, si lavorava fino a 60 anni: in questa logica la pensione rappresentava di fatto la copertura dal rischio di longevità, ovvero dal rischio di sopravvivere, più del previsto, all’esaurimento delle energie necessarie per lavorare. Oggi viviamo 20 anni di più ma andiamo in pensione ancora più o meno alla stessa età: l’età media di reale uscita dal lavoro in Italia, come riportato dal rapporto OCSE del gennaio 2022, quindi relativo di dati del 2021, era di 61,8 anni.
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