La scrittura magica di Joan Didion
“Ho fatto la scrittrice per tutta la vita”. E per comprendere e amare una donna che è stata una delle voci più autentiche della narrativa e del giornalismo contemporaneo, scomparsa la vigilia dello scorso Natale a New York, c’è una sola cosa da fare. (Ri)Leggerla.
Perché Joan Didion è unica. Ha cominciato a 5 anni ricopiando i racconti di Hemingway per carpirne i segreti – la stessa cosa faranno con lei un manipolo di scrittori culto del panorama americano anni dopo– e fin dal suo primo romanzo, “Run River” del 1963, ha dimostrato di aver imparato perfettamente la lezione dal maestro, riuscendo a piegare la sua lingua a una capacità narrativa e stilistica che non conosce eguali, condita da un senso dell’osservazione squisitamente spietato.
Giornalista acuta, caustica osservatrice della politica e della cultura del suo tempo, narratrice pungente ed emozionale prestata al cinema e immersa in una vita che non le ha risparmiato dolori strazianti ai quali ha dedicato pagine intense, Joan Didion ha lasciato un’eredità artistica e umana di immenso valore. Di cui sentiremo la mancanza.
La sua figura sottile ed elegante, nascosta da enormi occhiali da sole, da Sacramento, dov’era nata nel 1934, si incontrò con il rutilante mondo newyorkese racchiuso in una testata, Vogue, nella quale fece un apprendistato a tutto tondo, che le permise di avere uno sguardo privilegiato su quel mondo che lei seppe descrivere alla perfezione. Moda ma anche cronaca, milieu sociale e cambiamenti più o meno conflittuali: nulla sfuggiva alla sua penna veloce e a suo modo cinica; le sue frasi simili a epigrafi riassumevano con grazia lapidaria il senso di una vita che lei voleva cogliere in ogni suo aspetto e che riversò in quei libri che, a partire dal primo sopra citato, seppero raccontare l’America e i suoi protagonisti, diedero uno spaccato delle sue convinzioni attraverso personaggi che risentivano inevitabilmente delle sue esperienze, tratteggiarono con una dolente maestria quel senso della perdita con cui ogni essere umano deve fare i conti e che lei stessa provò sulla sua pelle. Come quella dell’amato marito, John Gregory Dunne, con cui condivideva la professione e un ménage familiare complicato ma, al netto di tutto, a lei necessario, che morì all’improvviso il 30 dicembre 2003 e diede inizio a un periodo di lutto che lei sviscererà anni dopo nelle pagine de “L’anno del pensiero magico” (edito da Il Saggiatore). Un capolavoro incentrato sul dolore, la cui forza travolgente mette tutto in discussione invitando a una riflessione sulla consapevolezza della morte, che c’è e deve essere accolta, e su come maneggiare quel pensiero inaccettabile della fine che confonde realtà e finzione per difendere dalla dura verità. Non fu facile, però, per Joan Didion accettare anni dopo anche la scomparsa della figlia Quintana Roo, piegata da un lungo calvario che culminò con una polmonite letale a soli 39 anni. A quella bambina bionda che lei e il marito avevano adottato ricevendola come un dono è dedicato “Blue Nights” (edito da Il Saggiatore): la scrittrice torna indietro nel tempo per riviverne l’infanzia e l’adolescenza fino all’età adulta e usa il racconto per interrogarsi sul senso del dolore- sviscerato minuziosamente, raccontato in ogni sua sfumatura- e su un’idea di maternità decapitata, fragile, abbandonata a sé stessa.
Due romanzi che appartengono all’ultima, sofferente, fase creativa di Joan Didion a cui si contrappongono, necessariamente, quelli della prima produzione capaci di raccontare l’America da dentro, con quella dote preziosa nell’unire giornalismo e narrativa in una contaminazione che fonde letteratura e cronaca, romanzo e reportage tipica del cosiddetto New Journalism. Sono “Verso Betlemme” e “The White Album” (entrambi editi da Il Saggiatore) con la loro prosa inimitabile ad aprire uno squarcio nitido sull’America – e in particolare, sulla California- degli anni 60 a cui fanno seguito due romanzi, ripubblicati di recente sempre da Il Saggiatore, “Prendila così” e “Il suo ultimo desiderio” a mettere in scena donne sull’orlo del crollo emotivo, ciniche osservatrici di una realtà che non capiscono fino in fondo ma dalla quale, nonostante tutto, non riescono a liberarsi.
“Noi ci raccontiamo storie per vivere” era l’incipit di The White Album e noi leggiamo Joan Didion anche per imparare a viverla, quella vita.
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