“LA MIA INGEBORG” di Tore Renberg e “L’UNITÀ” di Ninni Holmqvist
L’età matura vista da due romanzi chiave della letteratura del Nord tra solitudine e distopia
Come sopravvivere all’età adulta? Mode e modi di un percorso frastagliato e mai lineare sul quale anche la letteratura, nel tempo, si è soffermata e che mai come oggi gode di un’attenzione particolare che indaga sulle diverse sfumature che il trascorrere degli anni porta con sé. Se non è propriamente corretto parlare di un genere letterario autonomo, è vero però che una buona fetta dei protagonisti dei romanzi contemporanei è colta nella sua età di mezzo e, fatto salvo per alcune incursioni nel passato, vive ferocemente attaccata al presente sbirciandone le propaggini nel domani. Uomini e donne che, ben lontani da ogni stereotipo, abbracciano la vita con modalità differenti, seguiti dall’occhio vigile dei romanzieri pronto a metterne in luce le diversità e renderli eroi contemporanei, spesso un po’ ammaccati, ma comunque al centro di un percorso fortunato che conquista sempre più lettori. Tore Renberg e Ninni Holmqvist hanno puntato precisamente lo sguardo in questa direzione, scegliendo di disegnare, ognuno a suo modo, l’ angolo più maturo della vita con personaggi indimenticabili messi al centro di due opere che hanno conquistato lettori di tutto il mondo, Italia compresa.
Una favola nera di solitudine e di amore
A cominciare da una grande storia d’amore, disperata e misteriosa, in cui fa capolino un’irresistibile atmosfera noir orchestrata da Tollak o, meglio, Tollak di Ingeborg, il protagonista de “La mia Ingeborg” di Tore Renberg (Fazi Editore). Eletto libro dell’anno dai librai norvegesi e candidato in Italia al Premio Strega Internazionale, il romanzo sceglie la prima persona per dare voce fin dalle sue prime, crudissime pagine, al monologo di un anziano artigiano, Tollak, che vive solo nella brughiera norvegese, lontano dalla città e da qualsivoglia contatto umano fatto salvo per il fido Oddo, Oddoloscemo, un ragazzo problematico che ha accolto da piccolo. Le parole dell’uomo, solo nella sua casa fatiscente e invasa dalla sporcizia, scandiscono l’attesa per l’arrivo dei figli oramai adulti ai quali dovrà confessare la verità sulla scomparsa dell’amata moglie Ingeborg, il cui fantasma è l’unico interlocutore delle sue balorde riflessioni.
Ingeborg, così lontana eppure così vicina, la cui memoria rivive in un viaggio a ritroso nel tempo che ne ricostruisce la relazione con Tollak, tra brandelli di ricordi e stralci di vita vissuta, dove le parole del marito si incontrano e si scontrano con una seconda versione, più pulita e meno corrosa dall’odore di alcool e malattia che circonda l’uomo. Che aspetta, che viene mangiato dentro e fuori da una verità che non riesce a gestire, quella cioè di una persona avanti con gli anni, che fatica a trovare il suo posto nel mondo e che da quel mondo non viene capito, quel mondo che sembra altro rispetto a quello in cui è cresciuto, che lo condanna a una solitudine malata in cui poi, tutto quello che succede, sembra giustificarlo. “Appartengo al passato”, dice lui, “l’epoca in cui viviamo non è la mia”; e ancora “non le importa di me e di ciò che è mio, e io detesto il suo modo di incedere (…). È orrenda secondo me. Sono orrendo, secondo lei”. C’era solo Ingeborg a mediare questa relazione complicata, ad addolcire gli inevitabili cambiamenti, a fare da argine a una decadenza, dell’animo come del corpo, che sembra oramai inarrestabile. E mentre Tollak si crogiola nella consapevolezza di essere lui stesso la vittima di un sistema in cui non si riconosce e che gli fornisce il lasciapassare per l’innocenza, il suo flusso di coscienza diventa un magma che cattura il lettore e lo conduce dritto dritto in un gioco di contraddizioni feroce e brutale, instillandogli un dubbio che sa di compassione, di empatia, financo di amore.
Quando la distopia nasconde una salvezza
E del resto solo l’amore appare come unico rimedio per la distopia, quella di una Svezia futuribile in cui le cinquantenni e i sessantenni senza figli vengono rinchiusi in luoghi apparentemente paradisiaci per mettere i loro corpi e le loro menti al servizio di chi, al contrario di loro e dotato di una famiglia, è considerato indispensabile per la società. Terribile, si, ma si spera non profetico è “L’Unità” di Ninni Holmqvist (Fazi Editore), in cui la scrittrice di mezza età Dorrit Weger arriva in una di queste strutture, chiamata appunto L’Unità, per diventare la cavia di una serie di test farmacologi e psicologi prima e poi per donare man mano i suoi organi in un sacrificio fatto a uso e consumo degli altri, i genitori, quelli che, a differenza di lei, servono per la naturale evoluzione della vita. La sua colpa è quella di non essere stata amata abbastanza, di essere arrivata quasi al punto di essere come gli altri, salvo poi rimanere da sola, in una casa rattoppata, con l’unica compagnia del suo cane e dei suoi romanzi. Dorrit, consapevole che non ha scelta, accetta di essere rinchiusa in quella che, a tutti gli effetti, è una residenza di lusso, impreziosita da un’estate perenne e ricca di amenità tra teatri, piscine e persino una riproduzione quasi perfetta del giardino di Monet a Giverny, adattandosi al ritmo surreale del suo nuovo quotidiano con il solo desiderio di vivere in pace gli ultimi anni che le restano. Questo fino a quando conosce Johanson e se ne innamora perdutamente, vittima di un sentimento talmente forte che genera un altrettanto potente attaccamento alla vita e una conseguente energia che difficilmente riesce a rimanere ingabbiata nella serra dorata in cui è costretta.
“Quanto avrei voluto vivere nell’epoca in cui l’essere umano credeva ancora nel cuore. Quando credeva ancora che il cuore fosse l’organo centrale che conteneva tutti i ricordi, le emozioni, i sentimenti, le doti, i difetti e le altre caratteristiche che ci rendono quelli specifici individui che siamo. Sì, bramavo il ritorno al tempo dell’ignoranza prima che il cuore perdesse il suo stato e venisse ridotto a uno dei tanti organi certamente vitali ma sostituibili”.
Con il plauso di Margaret Atwood, una che di mondi distopici se ne intende, “L’Unità” è un romanzo aggraziato e intelligente, che rende terribilmente plausibile lo scenario che disegna e quasi accettabile la condizione dell’assurdo che descrive. Ricco di dialoghi e di un’umanità bramosa, è una lettura che piacerà anche ai non amanti del genere e lascia la consapevolezza che sono sempre e solo i legami umani quelli che, al netto di tutto, permettono la salvezza.
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