I capolavori da non perdere a Milano
C’è ancora nell’immaginario di noi italiani lo stereotipo di una Milano città degli affari e della moda. Invece il capoluogo lombardo è anche una città d’arte. Basti pensare al Cenacolo Vinciano o al fatto che la Pinacoteca di Brera, la Pinacoteca Ambrosiana o il Castello Sforzesco custodiscono capolavori di fama internazionale al pari del Louvre di Parigi o della National Gallery di Londra o del Metropolitan Museum of Art di New York.
Il “Cenacolo” di Leonardo da Vinci
Non possiamo iniziare questa rassegna se non con lo straordinario Cenacolo Vinciano, un’opera che ha incantato e continua a stupire i visitatori di tutto il mondo. Inserito, insieme alla Basilica di Santa Maria Delle Grazie, in cui è conservato, nella World Heritage List dell’Unesco nel 1980, è un’opera unica e senza tempo, di eccezionale valore universale, che ha influenzato lo sviluppo della pittura.
Nella Basilica di Santa Maria Delle Grazie, resa magnifica dal Bramante per volere di Ludovico Il Moro, quasi nascosto su una modesta parete nell’ex refettorio del convento domenicano, adiacente alla chiesa, ci attende una vera meraviglia, il Cenacolo (1494-1498).
Noto anche come l’Ultima Cena, è una pittura murale, lunga circa 9 metri e alta la metà, realizzata da Leonardo da Vinci (1452 –1519).
Rappresenta un momento preciso, quando Gesù, durante l’ultima cena, circondato dai dodici apostoli, annuncia che uno di loro lo tradirà. E’ una situazione di intensa drammaticità, raffigurata con un’esplosione di gesti e di sguardi, che indicano perplessità e stupore, ma anche preoccupazione e confusione. Leonardo, grande conoscitore dei moti dell’animo umano, ha espresso magistralmente le diverse reazioni degli apostoli.
Il genio dell’artista si vede anche nell’uso della luce e della prospettiva che dà l’illusione che lo spazio della stanza si prolunghi in quello del dipinto, rendendo lo spettatore partecipe dell’evento. Al centro del tavolo, che attraversa orizzontalmente tutta la scena, si trova Gesù, il fulcro della rappresentazione su cui confluiscono tutte le linee della costruzione prospettica. Ai suoi lati sono dipinti gli apostoli, che, in gruppi di tre, amplificano lo spazio in senso orizzontale.
Il Cenacolo da sempre, fin da quando è stato realizzato, è stato considerato un capolavoro straordinario. Goethe, grande poeta, filosofo e critico d’arte, quando lo vide, ne rimase talmente affascinato da dedicare un libro al Cenacolo di Leonardo, innalzandolo ad icona del genio universale.
“Cristo morto” di Mantegna (Pinacoteca di Brera)
Per rimanere tra i grandi maestri del Rinascimento, basta spostarsi alla Pinacoteca di Brera, dove è conservato il famoso Cristo morto, dipinto dal grande pittore Andrea Mantegna (1431-1506) intorno al 1480.
La tela rappresenta il corpo esanime di Cristo, poggiato su di una lastra di pietra e coperto da un lenzuolo.
E’ senza dubbio l’opera più coinvolgente ed impressionante del Rinascimento per il suo accentuato realismo. Ce ne accorgiamo subito dalla forza espressiva dell’immagine di Cristo, dalla raffigurazione della carne viva per le ferite delle mani e dei piedi, dal colore cereo della pelle, dallo strazio che emerge dai volti delle figure che si trovano sulla sinistra del quadro e dal panneggio del lenzuolo che evidenzia realisticamente i volumi del corpo.
A rendere straordinario questo quadro è innanzitutto una nuova costruzione prospettica, decisamente ardita e di grande effetto. Per la prima volta i piedi sono rivolti verso lo spettatore e la figura sembra quasi accorciarsi: le gambe, per esempio, risultano più corte ed il costato è particolarmente largo rispetto al resto della figura.
Questo particolare punto di vista ha permesso all’artista di concentrarsi su alcuni elementi anatomici, come sulle piaghe prodotte dai chiodi, sul torace rigonfio e sulla testa abbandonata. E contemporaneamente dà l’impressione allo spettatore di trovarsi dentro la scena, in piedi davanti alla figura del Cristo.
Lo spazio, occupato quasi completamente dal corpo di Cristo, l’ambiente un po’scuro e spoglio, il colore opaco della tempera e la luce pallida, che definisce le forme, contribuiscono a rendere la figura particolarmente monumentale e drammatica.
La “Pietà Rondanini” di Michelangelo (Museo del Castello Sforzesco)
Rimanendo nell’ambito dell’arte rinascimentale, Milano conserva un altro capolavoro: è la Pietà Rondanini, una scultura, rimasta incompiuta, a cui Michelangelo (1475 – 1564) lavorò fino all’ultimo giorno della sua vita. Alta un metro e novantacinque, è conservata al Museo del Castello Sforzesco di Milano.
La Pietà Rondanini rappresenta la Vergine che accoglie fra le braccia il corpo di Gesù dopo la deposizione dalla Croce. E’ un tema che l’artista aveva già affrontato precedentemente in altre tre sculture, a partire dalla famosa Pietà Vaticana che da giovane lo aveva reso famoso.
Se la prima Pietà aveva una compostezza classica, le opere successive sono più inquiete, fino ad arrivare a quest’ultima in cui Michelangelo manifesta il proprio dolore esistenziale e l’ansia per la morte che sentiva imminente. Abbandonò, infatti, la perfezione del corpo per esprimere la sofferenza e per meditare sul significato della vita e sul rapporto con la morte.
La scultura non si sviluppa orizzontalmente come la Pietà Vaticana, ma in verticale, con la Vergine posizionata dietro a Gesù in un atteggiamento diverso da quello della classica iconografia della Pietà. La Madre cerca di sorreggere il corpo del figlio, esanime ed in posizione quasi eretta. Gesù è schiacciato contro il corpo materno, come se le due figure fossero fuse insieme, quasi in un abbraccio doloroso, da cui però scivola il figlio ormai inerme.
Ad eccezione del braccio destro di Gesù e delle sue gambe, che risultano levigati, le altre parti dell’opera non sono finite e sono l’esito di continui ripensamenti da parte dell’artista.
“Canestra di frutta” di Caravaggio (Pinacoteca Ambrosiana)
L’artista che segnò una svolta nella pittura del tardo Rinascimento fu Caravaggio (1571- 1610), una delle figure più rivoluzionarie e affascinanti della storia dell’arte.
Si è distinto dai suoi contemporanei per l’uso della luce, fortemente contrastata da zone buie, con cui enfatizzava i suoi soggetti e creava atmosfere di intensa drammaticità. E’ noto anche per il suo realismo con cui ha dato una dimensione emotiva e umana all’arte del suo tempo.
Ne è uno splendido esempio la famosissima Canestra di frutta del 1599: un vero gioiello che si trova tra i tesori della Pinacoteca Ambrosiana.
Su uno sfondo monocromatico l’artista ha dipinto una canestra di vimini minuziosamente intrecciata. Al suo interno ha rappresentato con scrupoloso realismo diversi tipi di frutta, guarnita da foglie di vite.
Accanto alla frutta rigogliosa Caravaggio ha dipinto anche quella colpita ed ammaccata ed insieme alle foglie verdi anche quelle insecchite. All’immagine della bellezza ha unito, quindi, quella della decomposizione, perché voleva richiamare l’idea della precarietà e della transitorietà di tutto ciò che è terreno.
Con Caravaggio l’inestetismo venne rivalutato come logica contrapposizione alla bellezza, che viene percepita nel confronto con il suo contrario. Forse fu proprio per questo rapporto dialettico tra il bello ed il brutto che Caravaggio ricercò sempre la verità in ogni sua forma, in aperta antitesi con la celebrazione e la rappresentazione della bellezza da parte degli artisti rinascimentali.
“Il Bacio“ di Hayez (Pinacoteca di Brera)
Sempre alla Pinacoteca di Brera è conservato uno dei capolavori più celebri del Romanticismo: Il bacio, realizzato nel 1859 da Francesco Hayez (1791-1882).
Il quadro, benché nell’immaginario collettivo sia il simbolo dell’amore, ha anche un significato politico-risorgimentale. Il pittore, infatti, era noto nei circoli patrioti ed il dipinto è stato realizzato proprio in un momento cruciale della storia italiana, durante il periodo delle lotte per l’indipendenza del nostro paese, che porterà alla proclamazione dell’Unità d’Italia nel 1861. Lo stesso pugnale che sporge dal mantello del ragazzo diventa il simbolo della ribellione contro l’invasore.
Il bacio appassionato e struggente tra l’amata ed il giovane patriota che va a combattere rappresenta, quindi, il momento terribile del distacco doloroso e dubbioso dei due giovani innamorati.
“Il Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Galleria d’Arte moderna)
Passando poi all’arte moderna, non dimentichiamo che a Milano, nella Galleria d’Arte moderna, nella prestigiosa Villa Belgioioso, edificata tra il 1790 e il 1796 sul progetto dell’architetto austriaco Leopoldo Pollack, è custodita un’opera iconica: Il Quarto Stato, realizzato nel 1901 da Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868 – 1907). La tela di grandi dimensioni (293×545 cm) è dipinta con la tecnica divisionista con piccole pennellate, accostate , di colore puro.
In questo quadro Pelizza coniuga la classicità, individuabile nella plasticità e nella monumentalità delle figure, con il realismo e con l’impegno sociale Raffigura, infatti, una folla di lavoratori che, compatta ed ordinata, avanza dal buio dello sfondo verso il primo piano, dove la luce assume un valore altamente simbolico: rappresenta la speranza ed il riscatto di una nuova classe sociale, quella del proletariato (o quarto stato).
Proprio come simbolo delle rivendicazioni dei lavoratori, l’opera ha assunto negli anni un’importanza sempre maggiore (fu utilizzata anche da Bertolucci per il suo film Novecento).
Il numero delle persone che manifestano appare infinito e la loro marcia è così potente, da sembrare una fiumana (non a caso Fiumana era il titolo della versione precedente dell’opera).
I singoli individui hanno una loro precisa caratterizzazione ed una propria gestualità che li contraddistingue, ma tutti evidenziano la stessa fierezza e la stessa volontà di rivendicare i propri diritti. Procedono coesi verso un futuro più giusto: il loro incedere è pacato, ma sicuro e determinato.
In primo piano si staccano dal corteo tre personaggi: un uomo, che guida la marcia, dalla postura calma è sicura, seguito da uno più anziano e da una donna con un bambino in braccio, simbolo di rinascita. Lo stesso movimento dell’abito femminile diventa l’ emblema del lento, ma inesorabile avanzare della classe lavoratrice.
“Forme uniche della continuità nello spazio” di Umberto Boccioni (Museo del Novecento)
Rimanendo nell’ambito dell’arte moderna, il museo del Novecento, che si trova presso il Palazzo dell’Arengario, in piazza Duomo a Milano, conserva un’opera di straordinaria importanza per il Movimento Futurista e per tutta la storia dell’arte: Forme uniche della continuità nello spazio. E’ la celebre scultura che l’artista futurista Umberto Boccioni (1882-1916) realizzò nel1913.
A prescindere dalla sua notorietà per essere raffigurata sul retro delle monete da 20 centesimi di euro, Forme uniche della continuità nello spazio è un capolavoro assoluto della scultura non solo italiana.
E’ un’opera rivoluzionaria, in quanto, mentre gli altri futuristi hanno scomposto il movimento in fasi successive che poi venivano parzialmente sovrapposte, Boccioni l’ha voluto rappresentare in un unicum continuo.
In questa scultura l’artista ha espresso la tensione e la fluidità del movimento di un corpo che avanza nello spazio. Ha rappresentato, cioè, il movimento in atto, non interrotto, ma compiuto e, quindi, l’azione del corpo in movimento, piuttosto che la forma del corpo. La figura viene, così, modellata a seconda della relazione con lo spazio, che penetra in essa, la scompone e la dilata in un movimento continuo. Le sue parti, infatti, si sono trasformate, diventando spazi concavi e convessi.
Foto di Odinei Ramone su Unsplash
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