“Fratelli. Una famiglia italiana” di Santo Versace
La storia di una dinastia che ha rivoluzionato la moda raccontata direttamente in un’autobiografia (e qui per Cocooners) da uno dei suoi protagonisti
Vivere per raccontarla e, soprattutto, per raccontarsi. Santo Versace ha solo un rimpianto dopo aver affidato a una fortunata autobiografia la storia sua e della sua celebre famiglia. Che Gianni non possa leggerla. È questo il cruccio di un uomo la cui vita appassionata e ricca è stata caratterizzata da un’unica, grande missione, quella di essere il fratello maggiore di una dinastia, i Versace, che ha cambiato per sempre il volto della moda italiana.
“Fratelli. Una famiglia italiana” (edito da Rizzoli) è frutto della memoria emotiva di Santo Versace, in cui cuore e professione, come yin e yang, formano la faccia di una sola, complementare medaglia, dove c’è spazio per tutto. Amore, passione, felicità, ma anche rimpianto, nostalgia, un dolore lancinante e una certa e del tutto legittima dose di orgoglio per quella impresa familiare che è, ancora oggi, sul tetto del mondo. Santo Versace non nasconde nulla ma usa quel suo modo pacato, da gentiluomo del sud, per dare vita a un racconto affascinante e vero, che è al contempo un viaggio nella storia del costume e una vera e propria catarsi per chi ha voluto in qualche modo liberarsi dei pesi del passato per dare ragione alla seconda parte della sua esistenza in cui l’amore per una donna, Francesca, ha saputo sciogliere “un cuore in inverno”. Il suo.
La storia dei Versace ha inizio in una sartoria nel centro di Reggio Calabria in cui una sarta visionaria incantava le sue clienti con le sue creazioni, trasmettendo, per osmosi, la stessa passione al figlio Gianni. E se, inevitabilmente, buona parte del racconto prende le fila proprio dal geniale percorso che portò Gianni a creare un impero, quell’ impero non ci sarebbe stato senza l’apporto della famiglia e, particolare, di Santo. Fratello maggiore, di fatto e di attitudine per quella sua capacità di porsi come punto di riferimento per tutti, dopo la prima delle grandi tragedie che segnarono la sua vita e che lo fecero crescere in fretta, divenne l’ometto di casa, saggio e studioso, senza troppi grilli per la testa ma con un po’ di gelo nell’anima. Un ragazzo che, dopo la laurea in Economia e Commercio, un posto fisso in banca prima barattato con una cattedra da insegnante poi con l’apertura di uno studio da commercialista, per amore di Gianni mollò tutto e si spostò a Milano. Il perché è semplice: credeva nel fratello e il suo sogno era quello di realizzarne i sogni. Non è un caso che Giorgio Armani, che all’epoca era parte di quei “quattro cavalieri” a cui erano state idealmente affidate le magnifiche sorti e progressive della moda italiana, invidiasse a Gianni proprio Santo, la sua capacità di problem solver, il suo essere ben radicato a terra trovando comunque il modo di far volare l’immensa ricchezza creativa del fratello.
L’autobiografia di Santo Versace prosegue in una commistione di ricordi che diventano il palcoscenico in cui si riuniscono, come per magia, frammenti di un incantesimo creativo che ha il suo nume tutelare nella Medusa, non a caso simbolo della maison, in cui il glamour si scontra con la vita reale, le mancanze, la discesa all’inferno di quel maledetto 15 luglio 1997 in cui tutto è cambiato.
Qual è stata la ragione che l’ha spinta a scrivere questa autobiografia?
Grazie a questo libro mi sono liberato dalle tragedie e dai traumi vissuti nella mia vita: infatti non ho soltanto perso mio fratello Gianni, ma all’età di 9 anni è mancata anche una sorella, Tinuccia, che aveva solo 13 mesi più di me. Adesso che ho iniziato a raccontare una parte della mia vita, voglio andare avanti e completare l’opera. Scriverò altri libri.
Ci racconta la sua rinascita e come sua moglie Francesca l’ha, in qualche modo, salvato?
Diciotto anni fa ho incontrato Francesca. Anche lei è di Reggio Calabria ma non ci eravamo mai frequentati prima.
Io e Francesca, lo diciamo sempre, siamo stati molto fortunati nella nostra vita e per questo una parte di questa fortuna va ridata, restituita. Noi non abbiamo avuto figli insieme e per questo abbiamo costituito la nostra Fondazione con la quale stiamo sostenendo molti progetti. Il primo è quello di Don Aldo Buonaiuto che recupera le prostitute dalla strada. Un’altra iniziativa che stiamo cercando di valorizzare è relativa alle donne che lavorano in carcere, affinchè, al termine della prigionia, abbiano un impiego. Lavoriamo con Patrizia Corbo per la Cooperativa Sociale Piccolo Principe (che si occupa di minori in stato di disagio); collaboriamo con Chiara Amirante per sostenere la comunità internazionale Nuovi Orizzonti (che dà aiuto a coloro che si trovano in situazioni di grave disagio sociale) e molte altre iniziative. La cosa fondamentale è riuscire a costituire una rete di fondazioni virtuose: se siamo uniti e collegati riusciremo a fare, con gli stessi mezzi, molto di più e molto meglio.
Si può pensare che questo libro abbia una forte componente catartica che l’ha aiutata a fare pace con i suoi fantasmi?
In un certo senso sì. Gianni continua a mancarmi. Mi manca il suo sorriso, i suoi abbracci, il suo affetto, la sua gioia di vivere. Gianni era un eterno bambino.
Che cosa c’è nel suo futuro?
Nel mio futuro c’è mia moglie Francesca, la nostra fondazione e il cinema. Quando ho lasciato il mondo della moda, mi sono reso conto che la cosa che avevo sempre sognato era di fare film. Sia io che mia moglie abbiamo sempre avuto una grande passione per Federico Fellini, Vittorio De Sica e tutti i grandi registi che hanno fatto la storia della settima arte in Italia e nel mondo. E ci è sembrato ideale investire in Minerva Pictures di cui, dal 2019, siamo soci e abbiamo già avuto una grossa soddisfazione all’ultima Mostra del Cinema di Venezia in cui il film da noi prodotto (“Saint Omer”) ha vinto ben due Leoni. Adesso, naturalmente, siamo pronti per Hollywood e l’Oscar…
Buona fortuna di cuore, Santo, da tutti noi di Cocooners.
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