Duran Duran, dandy incompresi
Ci fu un momento in cui sembrava impossibile coniugare fascino e talento. Di fronte a una serie di scatti giocati in penombra, lateralmente fatali perché rimarcati da profili soavi eppure autorevoli, da sguardi vissuti eppure innocenti, i mormorii si facevamo progressivamente assordanti, tanto da coprire le note strumentali per poi dare la colpa al taglio dei capelli dei protagonisti.
Per quale motivo la diffidenza nei confronti della bellezza estetica si era trasformata in un assioma? Chi aveva paura dei Duran Duran?
Il culto dei Duran Duran
Quarant’anni esatti di racconti duraniani, di un culto che all’epoca si pensava infinito, ma si temeva vacuo, che non si è mai sopito, che sembra rinascere come la famigerata araba fenice. Che cosa era, cosa rappresentò, per quale motivo ha resistito al trascorrere brutale delle stagioni? La prima risposta è netta, nitida, senza alcun timore nell’incorrere nel sorriso altrui: i cinque della Birmingham appena uscita fuori dall’epoca marrone di Jonathan Coe, nel primo lustro di carriera, cambiarono i destini di una generazione, quella adolescente, tutta o quasi. Un processo di progressiva immedesimazione collettiva nelle strofe, nei ponti, nei ritornelli, nei suoni sintetizzati, nelle cavalcate frenetiche e nelle pause malinconiche, negli sguardi languidi e nelle smorfie irridenti, nelle pose plastiche e negli scatti rubati e, chissà come, sempre perfetti, nel modo di muoversi, parlare, gesticolare, pettinarsi.
Duran Duran: una band sottovalutata
Il pop che fa rima con giovinezza, con stravaganza, con energia, con bellezza, con arte. Con i Duran Duran. Applausi, isteria, delirio, accompagnati da una sequela di motivi che parevano non soffrire di inciampi, di refusi, di momenti noiosi. Una perfezione formale che suscitò i primi sospetti, e poi i rimbrotti, e poi le accuse e infine la messa la bando, scatenando difatti un‘autentica guerra generazionale. Già nell’estate del 1981, ossia durante la stagione del debutto, il New Musical Express, la testata musicale più influente dalle parti di Londra, e quindi dell’Europa tutta, lo scrisse chiaro e tondo: “I Duran Duran stanno per diventare famosi e non lo meritano affatto”. Due anni dopo, l’agognata conquista dell’America e il temuto critico di stampo marxista Robert Christgau li accusa: “Smidollati imperialisti, sono le più deplorevoli pop star dell’era post punk, se non del posto Presley!”. Ed era solo l’inizio.
Chiedi chi erano (sono) i Duran Duran
Un accanimento simile lo si regala solo a chi temi e quindi, in fondo, rispetti. Quattro decenni dopo, spieghiamo chi erano e chi sono i Duran Duran. Un mix funambolico eppure misurato di sentimento romantico e poesia decadente, da Novalis a Lord Byron, di futurismo, di art pop warholiano, di vendita a prezzi popolari di materiale di alto artigianato, di simbolismi, di glam pop, da Bowie ai Roxy Music, passando per Lou Reed, di suggestioni elettroniche ambientali alla Brian Eno, meccaniche inquiete alla Kraftwerk, esotiche alla Yellow Magic Orchestra, di disco music e funky, di scenografie che raccontano sempre una storia, di foreste gotiche, di Wild Boys e William Burroughs, di Skin Trade e Dylan Thomas, di Vertigini hitchcockiane, di politica priva di manifesti facili, opportunisti e fraudolenti, di arte vissuta come tale e quindi come godimento e celebrazione della bellezza, di spartiti da subito caratteristici, riconoscibili, spesso inusuali, eseguiti dai protagonisti con sarcastica, per gli altri, capacità tecnica. Eppure, 40 anni dopo, la parabola duraniana rimane un mistero, una realtà scomoda, in mezzo a tante certezze e immani cianfrusaglie scambiate per oro. Ma, tra passato e futuro, c’è ancora un bel presente da scrivere per Le Bon e compagni.
Five songs
A Matter of Feeling (Notorious -1986)
Dal progetto più ambizioso, e ovviamente non analizzato a fondo e men che meno compreso, ossia trasformare le notti decadenti di New York in un cimitero di disillusioni e di desideri sconosciuti e quindi sofferti, una ballata incentrata sul Sehnsucht, la “malattia del doloroso bramare” evocata dal romanticismo tedesco del 19esimo secolo
Secret Oktober (1983)
Un party di compleanno diventa una seduta di autonalisi, in uno stato d’animo celato agli invitati. La quieta risposta all’isteria che pervade il terzo album della band “Seven And The Ragged Tiger”
Midnight Sun (Medazzaland – 1997)
Variazioni su tema sentimentale, capovolto in un urlo disperato e poi via via sempre più liberato dai fantasmi dell’esistenza. In fondo, il sole può splendere anche a mezzanotte, se lo si vuole
The Reflex (Seven And The Ragged Tiger – 1983)
La canzone che, dopo tre anni di carriera in crescendo, li catapulta improvvisamente in un’altra dimensione, sconosciuta ai più. Un brano trascinante, entusiasta ma anche celebrazione dell’art pop, del nonsense, della metafora: “Il riflesso è un bambino solitario, che aspetta al parco… Il riflesso è incaricato di trovare il tesoro nel buio… E di sorvegliare il trifoglio fortunato, non è bizzarro?”
Is There Something I Should Know (1983)
Il manuale della perfetta pop song di inizio anni 80, armonie vocali di stampo beatlesiano all’interno di un giocattolo hi-energy, con incastri ritmico melodici di grande impatto e un testo pieno di licenze poetiche: “Ho visto i segni, gli aspetti e le immagini, ma loro hanno perduto il tuo gioco”
Avete voglia di calarvi nelle misteriose mappe durianane? Eccovi un compendio
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