“Chi dice tace” di Chiara Valerio e “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini
Le donne e le loro storie in due romanzi italiani da leggere ad aprile
Storie di donne e di province, di parole dette e di altre taciute; storie di epoche diverse che si intrecciano in realtà che paiono immobili e che invece, nel tempo, maturano come frutti e costruiscono dimensioni alternative. Storie di donne che, nelle parole scritte da chi, quelle donne, le ha conosciute, diventano ricerca di verità su una condizione femminile presa a paradigma di un universo più ampio e pietra di paragone di una società che, al netto degli anni trascorsi, appare sempre frenata dai soliti, consueti limiti.
Storie di donne che Cocooners ha scelto di racchiudere in due romanzi italiani di recente pubblicazione, in grado di illuminare, in maniera differente e sfaccettata, le complessità intrinseche di un eterno femminino destinato, comunque, a rimanere un mistero.
L’amore tra due donne in un paese di provincia
“Vittoria era morta e io non capivo perché. Ma ero certa che un perché ci fosse. Avevo bisogno del perché della morte di Vittoria”. La strana morte di Vittoria, nuotatrice provetta eppure annegata nella sua vasca da bagno, costringe Lea, la voce narrante di “Chi dice e chi tace”, il nuovo romanzo di Chiara Valerio edito da Sellerio, a porsi delle domande scomode e a investigare sul passato della vittima per provare a dare un senso a quell’assurdo che costituisce, squisitamente, la materia del vivere. Per farlo Lea trasforma Scauri, il paese della costa laziale affacciato sul Tirreno nel quale vive, in un palcoscenico in cui si intrecciano le vite ma soprattutto le voci di chi si è trovato a far parte dell’esistenza di Vittoria. Che si era trasferita lì negli anni ‘70 in compagnia di Mara, una ragazza molto più giovane di lei con cui aveva un legame chiacchierato. Che aveva trasformato il nobile palazzo fatiscente dove aveva preso residenza in una pensione per animali e, al contempo, nel centro di una nuova dimensione del vivere, fino ad allora sconosciuta agli abitanti del paese. Originale, bizzarra, alternativa, diversa. Libera, indipendente, misteriosa. Vittoria scombina il comune sentire di quella che è, a tutti gli effetti, la seconda protagonista della narrazione, la cittadina di Scauri e il suo coro dolente e pettegolo, trasferendolo in una diceria che alimenta una forma narrativa pulsante e potente, animando come un motore il ritmo del racconto, sostituendo punti di vista e piani narrativi.
E Lea, che non si rassegna alla morte dell’amica e che alla luce della sua dolorosa scomparsa si scopre a rivedere la sua stessa vita, si pone come un faro nell’esplorazione di quelle dinamiche di cambiamento che, sotto la superficie delle cose, rimangono in ebollizione e scardinano le certezze imponendo una nuova, forte visione. Sull’amore; sull’amore delle donne per le altre donne; su “quando una cosa è vera e quando smette di esserlo o quando è falsa e diventa vera”; su quello che cura e ciò che invece uccide, che poi è sempre lo stesso, perché farmaci e veleni sono composti dagli stessi ingredienti. Cambiano solo i dosaggi.
Il ritratto di una madre che incarna i mali d’Italia
Tra le tante cose che non ama, il suo nome è sicuramente tra le prime: “la cosa migliore che il suo prossimo possa fare è lasciarla perdere, non chiamarla affatto, se non a proprio rischio e pericolo”. Questa è Angela, urticante ed esagerata, nei modi come nelle parole, detestata e tenuta, invano, a distanza dal figlio scrittore che ne racconta la bellicosa storia. “Il fuoco che ti porti dentro” (Marsilio) è il ritratto amaro e ironico che Antonio Franchini traccia di una madre in perenne conflitto con la vita trasferendolo in una sceneggiata a uso e consumo di un pubblico che ritrova, nel perenne conflitto familiare, la dicotomia più ampia di un Paese e delle sue contraddizioni, in uno spaccato, a tratti fastidioso, dei mali radicali che lo affliggono. Un memoir che ha il ritmo di un monologo e, al contempo, di uno sfogo con il quale l’io narrante percorre la figura ingombrante di una donna che ha dato il passo alla sua vita, tracciandone, attraverso la rabbia e la furia che l’hanno sempre mossa, un’immagine destinata ad andare oltre il personaggio. “Perché io da sempre mi vergogno di mia madre”: un’ammissione di colpa che trasferisce in un’interrogazione più ampia il rapporto tra genitrice e figlio immergendolo nell’iconografia di un Sud atavico e pieno di rancore, ostile e feroce, con cui provare a venire a patti. Così la vivisezione esatta dei comportamenti e delle follie di Angela, delle sue crociate contro tutto e tutti, del suo qualunquismo giudicante e sprezzante del prossimo, dell’aggressività accompagnata da una sottile comicità, si traduce in una scrittura rabbiosa e dura che la segue dalla nascita al trasferimento forzato al Nord. Le sue imprese al limite del grottesco sono rese più pittoresche da un uso libero del dialetto napoletano che ammanta di una patina ridanciana l’epopea di una madre che tanto si detesta quanto, alla fine, si finisce con l’amare. Antonio Franchini ha scritto un romanzo intimo e privo di pudore, che mette in scena, con il sorriso a mezze labbra, la tragica normalità del vivere, comune a tutte le famiglie e dalle coreografie sempre diverse, sempre pulsanti. Sempre vere.
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