Aspettativa di vita in Italia
In Italia, sia per gli uomini che per le donne, è in ripresa l’aspettativa di vita alla nascita, che era calata durante l’epidemia di Covid. I dati pubblicati dall’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, indicano infatti che l’ aspettativa di vita è risalita a 82,9 anni, recuperando così 6 mesi dei 13 persi nel 2020, quando era scesa a 82,3 anni dagli 83,6 del 2019. L’Italia risulta quindi uno tra i paesi del mondo nei quali si vive più a lungo.
Bisogna però precisare che l’aspettativa di vita alla nascita non va confusa con l’età media della popolazione. La prima infatti indica quanto duri la vita, mentre la seconda misura l’età media di chi è attualmente in vita in una data popolazione. Più precisamente l’aspettativa di vita indica il numero di anni che rimangono da vivere ad una persona, all’interno di una popolazione, a partire da una certa età ed è quindi un dato variabile. I dati che comunemente vengono riportati si riferiscono invece all’ aspettativa di vita alla nascita.
È opportuno chiarire anche un altro equivoco. Quando si parla dell’allungamento dell’aspettativa di vita si fa riferimento alla conseguenza della riduzione dei tassi di mortalità infantile ed al miglioramento delle condizioni di vita e di salute, non ipso facto all’invecchiamento della popolazione. Per poter parlare di invecchiamento della popolazione, infatti, si deve associare il calo delle nascite all’allungamento dell’aspettativa di vita.
I fattori che determinano l’allungamento dell’aspettativa di vita
L’allungamento dell’aspettativa della vita è favorita da vari elementi, come le strategie di prevenzione, le diagnosi precoci, le nuove terapie, un’assistenza sanitaria più attenta, le migliori condizioni e gli stili di vita più sani, oltre al clima ed alla qualità dell’aria. E’ ormai nota a tutti infatti la stretta relazione tra l’inquinamento e moltissime malattie, come quelle respiratorie, cardiovascolari ed i tumori. L’ incidenza di queste malattie non solo abbassa la qualità della vita delle persone, che abitano in zone con alti tassi di inquinamento, ma è anche responsabile di una diminuzione dell’aspettativa di vita.
Dai dati Istat emerge inoltre che l’aspettativa di vita è condizionata anche dal titolo di studio ed è maggiore per chi ha conseguito una laurea o titoli di scuole superiori. Le distanze più marcate si osservano tra gli uomini con una differenza di 5,2 anni in meno per chi ha un titolo di studio basso, per le donne invece la differenza è di 2,7 anni in meno per chi ha un basso livello di istruzione. Questi dati forniscono un contributo importante, perché permettono di capire quale sia l’influenza sulla mortalità del livello di istruzione e delle condizioni socio – economiche.
Non dimentichiamo che nell’aumento dell’aspettativa di vita hanno un ruolo essenziale, e l’avranno sempre di più, anche le tecnologie mediche come la robotica, che, in ambito chirurgico, non solo ha ridotto notevolmente il grado di invasività degli interventi, ma ha garantito anche una precisione superiore a quella dell’operatore umano. Anche la telemedicina è una delle applicazioni più innovative e interessanti nell’ambito della sanità digitale, in quanto permette al medico di erogare servizi di assistenza a distanza, grazie proprio alle tecnologie informatiche.
L’aumento dell’aspettativa di vita si traduce in un inevitabile invecchiamento di una generazione
L’innalzamento dell’aspettativa di vita comporta la presenza di una generazione di persone avanti con l’età. Questo fenomeno, sia pure molto positivo, pone comunque delle sfide complesse, che richiedono opportune soluzioni.
In Italia, parallelamente all’aumento dell’aspettativa di vita ed all’allungamento dell’età media della popolazione, si registra anche un calo delle nascite, che oggi si attesta al minimo storico. E’ proprio l’indice di vecchiaia, cioè il rapporto in percentuale tra il numero degli ultra 65enni ed il numero dei giovani da 0 a 14 anni (secondo il quale nel 2021 c’erano in Italia 182,6 anziani ogni 100 giovani), a preoccupare maggiormente. Avremo infatti meno occupati e più pensionati con una maggiore richiesta di servizi e di prestazioni sanitarie, dovuta proprio all’allungamento dell’aspettativa di vita ed al progressivo invecchiamento della popolazione.
Insieme all’aumentata aspettativa di vita si è passati infatti da una situazione, in cui erano prevalenti le malattie infettive e carenziali, ad una preponderanza di quelle cronico-degenerative, come, per esempio, cardiopatie, ipertensione, diabete, cancro, disturbi muscolo-scheletrici. Dai dati epidemiologici sullo stato di salute degli italiani, pubblicati dall’ Istituto Superiore di Sanità, emerge infatti un quadro preoccupante proprio per la continua crescita di queste patologie, che da sole assorbono già circa il 70-80% delle risorse sanitarie. La dimensione della cronicità e della policronicità raggiunge numeri importanti con l’avanzare dell’età: già dopo i 65 anni e prima dei 75, più della metà delle persone ha una o più patologie croniche. Questo dato aumenta con l’età fino a interessare complessivamente i tre quarti degli ultra 85enni, di cui la metà è affetto da due o più patologie croniche.
Quali sono i provvedimenti da prendere
La sfida che dobbiamo porci è quella di vivere sempre più a lungo e con una buona qualità della vita, innanzitutto nell’interesse individuale, ma anche per la sostenibilità della sanità pubblica, già in difficoltà per la mancanza di risorse. La questione più difficile è infatti l’ottimizzazione dei mezzi disponibili, al fine di rispondere alle complesse domande di assistenza sanitaria.
Nei confronti delle malattie croniche, che, come si è detto, sono in aumento, bisogna assumere una logica preventiva, anziché semplicemente sintomatica e attendista, come si è fatto finora. E’ opportuno infatti programmare piani di prevenzione, che ne impediscano il verificarsi o ne rallentino il decorso. Sono infatti patologie, che richiedono molto tempo prima di manifestarsi clinicamente, ma che hanno origine già in età giovanile. Allora è proprio sui giovani che bisogna intervenire con attività di monitoraggio. Al di là delle genetica, queste patologie presentano infatti dei fattori di rischio, che si possono modificare, per esempio, con una sana alimentazione, con l’attività fisica e con stili di vita corretti.
Non dimentichiamo che il modo in cui invecchiamo dipende dal corredo genetico di ognuno, che non si può cambiare, ma anche da un insieme di fattori sui quali invece possiamo intervenire attivamente e responsabilmente. Bisognerebbe non solo adottare quei comportamenti, a cui abbiamo appena accennato, ma anche mantenere il cervello allenato, coltivare le relazioni sociali, aumentare la cura e la valorizzazione della propria persona. Sono raccomandazioni rivolte non solo ai più giovani, ma che rientrano anche nel quadro della promozione della cultura dell’active ageing, cioè dell’invecchiamento attivo. Anche gli anziani così possono contare su un aumento sempre maggiore dell’aspettativa di vita. Possono vivere in buona salute o contrastare il peso delle malattie croniche, evitando che si acutizzino e che mettano in pericolo la vita.
La gestione della malattia cronica deve diventare perciò una delle nuove frontiere della medicina, perché in Italia si è abituati a curare la malattia nella sua fase acuta, ma manca la cultura della cronicità. Tra gli altri la stessa Livia Turco, ministra della sanità, nel secondo Governo Prodi, dal 2006 al 2008, a proposito della qualità e della aspettativa di vita, già allora scriveva che in Italia abbiamo un sistema di cure che funziona come un radar a cui il paziente appare per essere curato e scompare alla vista una volta guarito. Perfetto per le malattie acute, ma non per le patologie croniche, per le quali serve invece un modello di assistenza diverso.
Occorre evitare non solo che le persone si ammalino, ma che anche chi è già malato non vada incontro a ricadute, aggravamenti e disabilità. Si deve implementare perciò un sistema territoriale, adeguatamente attrezzato, per le malattie che non guariscono e che devono essere seguite nel tempo. Anche l’assistenza domiciliare integrata (ADI) deve essere potenziata in modo da evitare le lunghe degenze in ospedale.
Se le strutture territoriali svolgono la funzione di screening, di cura e di controllo delle patologie croniche, gli ospedali potranno impegnarsi nella cura e nella gestione delle malattie acute.
Ci auguriamo che i fondi (15,63 mld), stanziati dall’ Europa nel Pnrr, vengano utilizzati in modo oculato, per realizzare in primis adeguati sistemi territoriali e per “modernizzare” il nostro sistema sanitario.
Speriamo che anche nel nostro Paese si stia finalmente passando dall’idea di salute, come spesa, all’idea di salute, come investimento.
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