Anthony Hopkins, invecchiare mi ha insegnato ad amare la vita
A tu per tu con Sir Anthony Hopkins, trascinante protagonista (da Oscar) del film The Father, con Olivia Colman, e amatissima star dei social, che qui ci insegna il segreto per far pace con le nostre paure e sorridere alla vita.
La sua ironia, una luce in fondo al tunnel
In questi mesi ci hanno ispirato e incoraggiato i video sui social in cui suona al pianoforte, mentre il gatto Niblo fa le fusa sulle sue ginocchia; in cui balla con l’amica Salma Hayek o volteggia con inaudita agilità sulle note di Drake. Ci hanno commosso fino alle lacrime i messaggi con cui sprona i ragazzi fiaccati dal lockdown a resistere e credere in se stessi – “agite come se fosse impossibile fallire”. Nel buio più pesto della pandemia, insomma, quando ancora non si vedeva la fine del tunnel, la presenza lieve e bonaria di Sir Anthony Hopkins, la sua tenerezza compassionevole e ironica, le improbabili camicie hawaiane che ostinatamente indossa, hanno davvero aiutato molti di noi a superare le secche della quarantena, sono state una confort zone per rinfrancare il buonumore… e meditare sul senso della vita.
Il secondo Oscar, a 83 anni
E per la verità Sir Anthony, che a 83 anni ha appena vinto il suo secondo Oscar, dopo quello per Il silenzio degli innocenti, per la trascinante interpretazione in The Father, in questi giorni al cinema, a dispetto di una carriera gloriosa e blasonata che gli consentirebbe di riposare sugli allori, questa l’ha presa davvero come una missione: «è un mondo che sembra senza speranza», ha dichiarato in un’intervista a Elle Italia, «pieno di polemiche e di odio, ci siamo dentro tutti. Allora ogni tanto cerco di trasmettere un po’ di speranza, di inviare qualche messaggio umoristico alla gente: provo a farvi ridere un po’, perché non staremo qui a lungo».
Il wake up call e la resa dei conti
Del resto Sir Anthony ha cominciato la sua resa dei conti con la vita, con quello che definisce «il grande scherzo di nascere, vivere e morire», in tempi non sospetti, quando cioè, 45 anni fa, ha sentito suonare il suo personale wake up call: «stavo bevendo fino ad uccidermi», ha raccontato anche sui suoi canali social, «mi sono ritrovato a decidere se volevo vivere o morire». Da allora, da quando cioè è sobrio, ha imparato, ammette, a lasciare andare, a innamorarsi di quella che chiama «l’infinita dolcezza dell’esistere», a godere delle cose belle: la musica e il piano, che ha iniziato a studiare da ragazzino, incoraggiato dalla madre, e la pittura, le coloratissime tele espressioniste – invariabilmente sormontate da un paio d’occhi inquietanti – alle quali la moglie Stella lo spinge a lavorare – «Non sono un’artista, pasticcio un po’, ma lei mi ha detto: fallo e basta».
Faccia a faccia con la propria fragilità
Ma il suo capolavoro, le parole definitive sull’irrevocabile condizione di vulnerabilità che, a dispetto di successi e ambizioni, l’età e le malattie ci impongono, Sir Anthony li ha consegnati all’interpretazione di The Father: il ruolo più amato, quello di Anthony (il suo stesso nome, la stessa classe anagrafica), un anziano fiero e burbero che perde, a causa della demenza senile, la sua salda presa sulla realtà; un uomo un tempo lucido e presente che progressivamente scivola in una voragine di disorientamento, in cui trascina la figlia devota (una strabiliante Olivia Colman) e lo spettatore stesso.
Come davanti a uno specchio
«Faticavo sul set a separare l’attore dal personaggio», ha confessato il regista Florian Zeller, drammaturgo e autore della pièce teatrale da cui il film è tratto, dedicata alla nonna che lo ha allevato e che si è ammalata di demenza quando lui ancora aveva solo 15 anni. «Questo perché ho sempre avuto in mente soltanto Hopkins mentre pensavo di adattare la pièce al film». Forse anche per questa sovrapposizione di identità l’adesione di Sir Anthony al progetto di The Father è stata sorprendente – Zeller in fondo è un drammaturgo francese poco noto, qui al suo debutto sul grande schermo. Ma Hopkins si è immedesimato nel padre del film con dedizione e senza sconti, fino alla scena madre, in cui una sorta di corto circuito emotivo lo ha riconnesso con le proprie personali paure.
Che si fa coi sogni svaniti nella polvere?
«Mentre giravo mi è caduto l’occhio su una fotografia di scena», ricorda Hopkins, «nella cornice c’ero io con le mie due figlie nel film. Ho pensato a tutti gli oggetti che ci accompagnano A quanto sia fragile la vita e al fatto che, quando sarà, non potremo portarli via con noi. A quanti affetti se ne siano andati per sempre, come se non fossero mai esistiti». In pochi attimi, Hopkins si è ritrovato faccia a faccia le proprie radici: «mi sono ricordato di quando ho ritrovato le cose di mio padre, i suoi occhiali da lettura, la penna, il quadernino e la mappa dell’America, dove gli avevo promesso di portarlo. L’ho trovato straziante. Cosa si fa coi sogni svaniti nella polvere? Sono cose difficili da accettare». Uno strazio autentico, che ha reso quella scena finale memorabile e, ammette Sir Anthony, gli ha regalato un profondo sollievo: «mi ha pervaso un meraviglioso senso di pace. Non saprei descriverlo, ma per me, alla mia età, è stato straordinario diventare consapevole della mia mortalità. Mi fa sentire bene sapere che… beh: un giorno i miei sforzi saranno finiti».
Qualcuno diceva che temere la morte è un po’ come aver paura della vita: forse Sir Anthony lo ha capito
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