Abbey Road: l'inizio della fine dei Beatles
Bell’affare essere avanguardisti: senti, prima che si palesi, il profumo del cambiamento, avverti i rumori dello smottamento, mentre tutti intorno ballano e brindano nell’incoscienza, intrappolati nell’incantesimo ordito dalle sirene della vita, indossi l’abito della lungimiranza, pieghi con accortezza il tovagliolo, ti sistemi la giacca, saluti con cortesia, tra i moti di disapprovazione degli astanti, e vai via. È il 1969, è l’apogeo della rivoluzione giovanile, il momento in cui i trofei conquistati nell’arco di un decennio magico compongono un quadro definitivo, ma tutti ne vogliono ancora, perché l’appetito vien mangiando e la sazietà è materia indigesta.
Volevamo la luna e l’avevamo conquistata, la libertà dei costumi aveva fatto dei passi da gigante, certo c’erano ancora alcuni mattoni da tirare giù, estremismi socio politici est europei, il napalm in Vietnam, ma il Peace & Love avrebbe trionfato e a Ferragosto ne avremmo avuto la conferma, con la bolgia stralunata, entusiasta, effervescente, libera del Festival di Woodstock, la tre giorni di pace, amore e Jimi Hendrix; mezzo milione di persone raccolte nello sterminato campo di Bethel, piccolo centro rurale situato nello stato di New York. Eppure qualcuno aveva smesso di sorridere, alzava la voce, minacciava. Prima piccoli avvertimenti, poi segnali di fumo sempre più consistenti. Ma che importa? Siamo negli anni 60, siamo nell’età dell’acquario, siamo fratelli. E poi, ci sono i Beatles.
A proposito, dove sono finiti?
I Beatles ritornano insieme, per un’ultima volta
I Beatles sono finiti, dopo l’ultima accelerazione, quella definitiva, epocale: dalla pistola fumante di “Revolver” alle avventure del Sergente Pepper e del suo gruppo di cuori solitari, dai trip psichedelici che si trasformano in surreali viaggi in pullman, per poi inabissarsi all’interno di sottomarini gialli, fino al disordine inquieto eppure candido dell’Album Bianco. I Beatles hanno smesso di essere un gruppo da tempo e si sono trasformati in un Paese in cui tutti vogliono abitare. Però all’alba del 1969 sono finiti sul serio, ma nessuno lo sa e nessuno lo deve sapere. Volano gli stracci durante la lavorazione di “Let It Be”. Sono sempre loro, ma John è assorbito da Yoko, George si sente sottostimato e Ringo non sa cosa fare. Ci pensa Paul, il quale, quasi senza accorgersene, decide di guidare la baracca. Ma per gli altri lo pretende e anela il piedistallo. Scoppia la guerra intestina tra quattro anime che ne hanno le tasche piene di frequentarsi. Sul ’”White Album” si erano avvertiti i primi sentori: poca collaborazione, canzoni firmate da soli, con gli altri a fare da mero supporto. Risultato? Un album imponente, una fotografia perfettamente calibrata dell’epoca, un plotone immenso che cammina fiducioso e entusiasta dietro i quattro pifferai magici. I Beatles sono un esempio, un modello da vivere. Qualcuno equivoca, si chiama Charles Manson e durante il processo per la strage di Bell Air accuserà McCartney, reo di aver scritto il brano scintilla del pluri-omicidio, “Helter Skelter”.
I Fab Four sono così grandi che anche loro, in un moto di lucidità, si accorgono di non poter mollare così: si guardano negli occhi e poi Paul chiama George Martin, il quinto “Beatle”, il produttore e arrangiatore della favola, e gli dice: “Vogliamo fare un album come ai vecchi tempi”. Non è vero. Ma alla fine sarà il commiato più celebrato di sempre.
A piedi scalzi sulle strisce pedonali
E così, tra aprile e luglio del 1969 viene composto e realizzato “Abbey Road”, il cui titolo si manifesta quando i quattro colleghi, in una mattina inusualmente molto calda sotto il cielo agostano Londra, si fanno riprendere da Ian Macmillan mentre attraversano la strada situata nei pressi dei celeberrimi studios. È l’inattesa e degna conclusione di un tour de force che catapulta i Beatles negli anni 70, tra boogie assassini (“Come Together”), ballate oniriche eppure epiche (“Something”), rievocazioni doo-wop, con Paul che sembra Joe Cocker (“Oh Darling”), marcette infantili irresistibili (“Maxwell’s Silver Hammer”) e un secondo lato in cui le singole canzoni vengono collegate per formare una lunga suite. Il tutto colorato da sonorità dense, corpose, pronte per il nuovo decennio in cui però i Favolosi non approderanno.
Gelosie, orgoglio, voglia di primeggiare sugli altri, interessi improvvisamente differenti, le figure femminili che si insinuano, che rompono l’incantesimo, gli affari, i soldi, un manager, Allen Klein che solletica e si accorda con John, George e Ringo, ma non con Paul che lo accusa pubblicamente in “You Never Give Me Your Money”, che somiglia a un capolavoro di languidezze sentimentali ed è invece un pugno in faccia. Un affresco perfettamente prodotto ed eseguito, ma non c’è più sintonia e, forse non a caso, sulle strisce pedonali, McCartney è l’unico a piedi nudi e con i passi fuori sincrono rispetto agli altri. Un’istantanea che dà il via a una serie di leggende legate alla morte di Paul: non è lui, è un sosia, dice un deejay americano e, dopo 53 anni, ci sono milioni di persone che ci credono ancora e qualcuno ci ha scritto su anche qualche libro, ricco di prove. L’uscita nei negozi è schedulata per settembre, c’è ancora tempo per qualche altro scatto. Rieccoli, il 22 agosto, appoggiati a un portone, tutti barbuti, tranne Paul (“Non è lui!”), sembrano seccati, stanchi, vogliosi di aprirla quella porta e di scappare, prima che sia troppo tardi, prima che qualcuno addossi su di loro qualche tremenda colpa. Perché i 60 magici stanno scomparendo, salutati dai disordini di Altamont, dai Rolling Stones sporchi di sangue, cinici, crudeli, disillusi come il prossimo decennio, mentre Brian Jones muore e anticipa di qualche mese Hendrix, Morrison e Joplin, con Jagger che lo celebra all’Hyde Park, facendo volare centinaia di farfalle che cadono tutte a terra stecchite, mentre Syd Barrett impazzisce progressivamente, mentre i suoni di “Abbey Road” si diffondono ovunque, creando l’ennesima illusione, spezzata il 10 aprile del 1970, da uno scarno comunicato firmato dal leader, Paul McCartney.
O dal suo sosia.
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