A VOLTE RITORNANO
Secondo uno studio del Federal Reserve Board del 2016, già allora un terzo dei pensionati americani tornava al lavoro dopo i primi tempi di inattività. Ma in questi mesi si parla di un’ondata di neo pensionati che cambiano idea. E’ proprio così?
Durante la pandemia negli USA ci sono stati 2,4 milioni di pensionati in più rispetto alle stime, persone che hanno deciso di anticipare l’uscita dal lavoro per paura del contagio o per necessità, come è successo in Italia a molte donne che hanno lasciato il lavoro durante il Covid non per andare in pensione ma per assume gli oneri di assistenza a un familiare molto anziano, in un momento in cui non si poteva contare molto sulle RSA.
Oltre il 60% di questi neo pensionati sta tornando adesso al mondo del lavoro, chi per necessità rappresentata dall’erosione del proprio potere di acquisto a causa dell’inflazione, chi per sostenere un familiare in difficoltà, chi perché a casa si annoiava. Le ragioni sono diverse, ma mentre si sarebbe portati a credere che le ragioni finanziarie facciano la parte del leone, è utile sapere che dai risultati di un’indagine condotta su 500 neo-pensionati che tornano a lavorare, pubblicata nel US Job Market Report del secondo trimestre del 2022, solo il 27% sostiene di tornare a lavorare per necessità economica e un altro 21% perché teme che l’inflazione eroda il capitale che aveva messo da parte per la vecchiaia, ma oltre il 60% lo fa per “avere qualcosa da fare”. In una società in cui non c’è più l’abitudine a stare senza far niente, a spazi di ozio lasciati alla riflessione e alla meditazione, e dove quello che si fa definisce chi si è, non siamo pronti a non aver più niente da fare.
Ritorno ma part-time: la libertà di scegliere tempi e modi
Ma c’è un altro dato della ricerca che, letto insieme a quel bisogno di avere qualcosa da fare, può suggerire un cambiamento di cultura in atto che, come molte volte succede, è prima “agito” che rubricato: il 79% di queste persone cerca un lavoro part-time. Questo è il vero punto di volta: una ricerca di flessibilità che già primeggia nelle ricerche di lavoro da parte di giovani candidati, specie per la parte più fortunata di loro alle prese con il privilegio di scegliere quale impiego accettare in una società rimasta senza giovani talenti. Per i neo-pensionati, lavorare in presenza o in remoto non fa una grande differenza, i numeri dicono che la maggioranza è aperta a entrambe le opzioni, ma la flessibilità di tempo è fondamentale. Per dirla in breve, si sta creando spontaneamente una categoria di pensionati che decidono di lavorare ancora per qualche anno ma senza essere più disponibili a farsi assorbire totalmente.
Associare all’assegno pensionistico un reddito da lavoro anche modesto, commisurato a un impegno parziale, consente di migliorare il proprio tenore di vita e nel frattempo tornare a rivestire un ruolo sociale che ci ha definiti nel corso del tempo.
Cosa fai? Una volta la risposta di un pensionato era sono in pensione. Oggi potrebbe cambiare in lavoro a modo mio.
E’ quello che sostiene Joe Coughlin, direttore dell’AgeLab dell’MIT di Boston, secondo il quale all’incrocio tra necessità e virtù sta affermandosi una nuova fase all’interno del concetto di pensionamento, una specie di ritiro dalla vita votata al lavoro per entrare in un periodo della vita in cui i ritmi lavorativi, i progetti lavorativi, almeno per chi se lo può permettere, sono autodeterminati. Si tratta sicuramente di una questione di tempo del lavoro, ma anche di qualità dell’essere. Come se questa nuova concezione di un semi-pensionamento semi-lavorativo si basasse su un’uscita di fatto dalla schiavitù di tempo e scopo più subiti che scelti.
Il pensionamento cambierà nel futuro della longevità
A una vita centenaria corrisponderà una vita lavorativa molto più lunga, ma più variegata e flessibile, con carichi diversi in base alle esigenze personali e familiari della varie fasi della vita e un pensionamento graduale, con una prima fase di parziale pensione e parziale lavoro, prima dell’inattività vera e propria che si sposterà a un’età più avanzata.
Gli osservatori del fenomeno dei lavoratori di ritorno dibattono su come chiamarlo: the great return, the quiet return, un-retirement (“non pensionamento”) o reverse-retirement; in realtà sembra piuttosto una specie di pensionamento double-face in cui si è entrambe le cose: pensionati e lavoratori.
Se una volta andare in pensione rappresentava la libertà di non dover far niente, di non dover più rispondere a nessuno, adesso è la libertà di lavorare a modo proprio, di rispondere alla propria indole.
Qualcuno sostiene che il fenomeno del ritorno al lavoro sia il risultato di una ripresa dal burnout lavorativo: dopo sei mesi o anche un anno di riposo, ci si riprende e si è di nuovo disposti a lavorare, purché a tempo parziale. Altri sostengono che, al contrario, si tratti di una specie di burnout da inattività: sono molti gli studiosi che portano dati scientifici a sostegno della oggettiva caduta verticale della salute fisica e cognitiva nel momento in cui ci si adagia in un tempo di inattività, come se non fossimo più educati a stare senza far niente. Altri con un punto di vista più sociologico osservano che le coppie ormai tendono sempre più ad invecchiare insieme e nessun matrimonio è così solido da resistere all’urto della convivenza h24 per 20/30 anni. Infine ci sono quelli che indicano la spinta al ritorno nel bisogno di socialità: particolarmente per gli uomini, la socialità che sostiene le loro vite è lavorativa e semmai dall’ambito del lavoro si avventura nelle vite private: una birra, una partita insieme, una grigliata, una vacanza con i figli comuni. Senza la componente emotiva delle frequentazioni lavorative, l’equilibrio della persona comincia a scricchiolare: non è facili farsi amici nuovi a 60 anni.
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