"Aria di famiglia" di Alessandro Piperno
Un romanzo borghese concentrato sull’odissea esistenziale di un cinquantenne professore universitario
“Dopo i 50 anni è così tanta la gente che inizia a morirti intorno che a un certo punto non ci fai più nemmeno caso”. Un incipit fulminante per un ritorno attesissimo, quello di Alessandro Piperno che, con il suo “Aria di famiglia” (edito da Mondadori), si concentra nuovamente sul protagonista del suo romanzo precedente. Non è però necessario averlo letto (ma il consiglio è di procurarsi il godibilissimo “Di chi è la colpa”) per seguire le vicende del professor Sacerdoti che, lasciatosi alle spalle l’adolescenza, è oramai un maturo cinquantenne, deliziosamente goffo e sottilmente misantropo, dotato di un fatalismo del tutto normale (e decisamente spassoso) che sembra quasi preannunciare la piega che prenderà la sua vita. È sempre un gioco di rimandi e il gusto di rintracciare legami tra passato e futuro ad alimentare non solo la curiosità verso la lettura ma a creare un microcosmo familiare che conforta il lettore da una parte e dall’altra giustifica la sapiente padronanza del mestiere da parte di Piperno. Che, come i suoi illustri predecessori e, in particolare, gli esponenti del romanzo cosiddetto borghese, si diletta a maneggiare il tempo a suo piacimento e lo piega alle esigenze della narrazione e dei suoi personaggi. Roba da fuoriclasse, insomma.
Ma è utile procedere con ordine. E, nella fattispecie, dalla rimpatriata in stile “Il Grande Freddo” conseguente alla scomparsa di una vecchia compagna di liceo che, in una gimkana di memorie e di flashback, accompagna le riflessioni sul presente del professore Sacerdoti – che si chiama Alessandro come l’autore, tanto per amplificare il tam-tam di riferimenti extra testuali- concentrate sulle sue grane accademiche e, in particolare, sull’accusa di maschilismo mossa nei suoi confronti da una collega particolarmente rancorosa. Colpa di un’incauta lettura delle epistole di Gustave Flaubert dagli accenti eccessivamente misogini, la cui casualità non è stata del tutto innocente.
“Perché non stavo bene, perché ero infelice, perché l’insegnamento mi andava sempre più stretto, perché non avevo più fiducia in me stesso, perché da mesi non riuscivo a scrivere un paragrafo di cui andare fiero”. Il preambolo a una crisi esistenziale di un uomo di mezza età? Forse. Ma proprio in virtù di questo incidente e della conseguente shitstorm che si abbatte su di lui, il professor Sacerdoti sarà costretto a cambiare vita e a consegnarsi, quasi spontaneamente, a quanto il destino gli ha messo in serbo.
Nello specifico, “una faccenda tremendamente delicata”, che ha un nome, un cognome e gli otto anni di un ragazzino, Noah Meisner, figlio di una sua cugina morta in un incidente sulle nevi e rimasto senza nessuno nelle possibilità legali – e nelle capacità pratiche – di occuparsi di lui. È il passato che torna a bussare alla porta del protagonista, già “virtualmente orfano” e cresciuto dallo zio tutore, ora alle prese con una nemesi speculare che nessuno dei suoi tanto amati romanzieri francesi avrebbe potuto preventivare e costretto ad allargare il suo ristretto nucleo famigliare per fare posto a Noah.
È qui che batte il cuore del romanzo, nella faticosa costruzione di un rapporto tra un bambino silenzioso e sfuggente, tenacemente attaccato alla tradizione ebraica tanto quanto lo zio ne è lontano, in cui sembra ripetersi un destino e, soprattutto, i tanto temuti conti con il passato in cui la comune sofferenza diventa una questione di cuore. “Quel moccioso ero io, naturalmente. Non c’era modo di sbarazzarsene. E si sa, gli orfani sono come i monozigoti: se non per il taglio di capelli, è difficile distinguere un gemellino dall’altro”.
Il resto è il racconto di come, da un disamore – della scrittura, della professione, della vita, della stessa idea di famiglia e di religione- possa nascere un nuovo amore, concentrato sull’importanza dei legami di sangue, dei gesti di affetto, di nuove abitudini, di quell’aria di famiglia di fatto imprescindibile che è però anche foriera di rinascita. È così che “tra due solitudini nasce uno spazio comune”; così che “ciascuno di noi apparteneva alla biografia dell’altro”; così che si snodano tutta una serie di situazioni, brillanti, malinconiche, catartiche ma soprattutto ricche di umorismo ebraico e di un’atmosfera in cui risuona l’eco delle voci di Philip Roth e dei classici francesi, Proust in testa. E l’ironia è sempre di più un tesoro nella penna di chi, come Alessandro Piperno, la piega a una narrazione classicheggiante nella quale spiccano personaggi profondamente umani e forse anche per questo non sempre gradevoli, non bravissimi a maneggiare le loro debolezze ma decisi a farne un’arma per sopravvivere alle contraddizioni della vita. E tutto senza mai abbandonare quella sana dosa di empatia perfetta per riuscire ad immaginare realmente quello che gli altri provano. Che, semplicemente, equivale a capirli.
“Ora che la mia vita, per una serie di circostanze non tutte dipendenti dalla mia volontà (ma alcune sì), si era ridotta a una tabula rasa, come se d’un tratto fossi tornato diciottenne, ero pronto a inaugurare una nuova stagione”. Tutta da leggere, naturalmente.
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