L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia di Gabriella Caramore
Una rilettura dell’età senile per orientarsi oltre i luoghi comuni e godere di una stagione della vita unica
Esiste un’età adulta e un’età grande. Che, pur essendo conseguenti l’una con l’altra, sono, di fatto, diversamente indagate. Infatti, mentre i riflettori – e le riflessioni – sono sempre puntati a investigare la prima, le narrazioni rivolte all’età senile e ai suoi protagonisti sono quantomai sporadiche e spesso affidate a luoghi comuni. Una questione in cui si è imbattuta la stessa Gabriella Caramore – saggista e autrice radiofonica, nonché collaboratrice di diverse testate e docente di Religioni e Comunicazioni- prima di cominciare a raccogliere considerazioni e pensieri, mossa anche dalla sua esperienza personale, per renderli materia di indagine nel suo “L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia” (edito da Garzanti).
Età grande perché “grande per il numero di anni. Certo. Ma non solo. Grande perché deve sopportare un carico di prove che non ha l’eguale nelle altre fasi della vita. Ma grande anche perché è quella più capace di avere consapevolezza di sé”. Grande anche perché è l’unica età della vita che non ha di fronte a sé un futuro incerto e, di contro, ha invece una grande sfida ad attenderla.
Arrivare preparati nell’ultima stagione della vita
Del resto, quello che, di base, è un processo naturale che segue la continua metamorfosi dell’essere nel corso dell’esistenza, in realtà avrebbe necessità, a detta dell’autrice, di una narrazione fatta di parole capaci di guidare le persone a orientarsi in una stagione in cui si arriva poco preparati e, soprattutto, con modalità differenti. Già, perché non esiste una cesura temporale che indichi quando e come si diventi, effettivamente, vecchi. O meglio, grandi. Esistono le storie singole, le esperienze di ogni persona, le voci e i colori, anche, di quegli artisti che hanno piegato la loro stessa arte, mossi dal tempo che trascorreva anche per loro, a rappresentare il cambiamento. Tutte testimonianze importanti che mostrano, una volta di più, come sia mutata la percezione stessa della terza età in relazione anche a ragioni biologiche, evolutive, storiche e culturali. Proprio su queste ultime si sofferma la penna di Gabriella Caramore che dedica pagine intense a raccontare di come le opere di celebri artisti abbiano rappresentato, visivamente, la vecchiaia e il suo divenire accanto alle preziose testimonianze di poeti e di scrittori che hanno trovato parole perfette per raccontare il tempo penultimo della vita. Senza tralasciare, naturalmente, i testi sacri.
Esiste conforto nella vecchiaia?
Ma si può davvero trovare conforto in un qualcosa che, come la vecchiaia, possiede naturalmente “un che di atroce” (come asseriva Eleanor, protagonista de “Gli Anni” di Virginia Woolf)? Un interrogativo quanto mai attuale, soprattutto alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tempi quando la pandemia ha portato alla luce le contraddizioni della società contemporanea mostrando l’incuria sociale e familiare da cui spesso è avvolta la vecchiaia. A tal proposito l’autrice, citando T.S. Eliot e la necessità che i vecchi siano sempre più simili a degli esploratori, li invita a imparare a dare maggiore valore ai loro anni e ai loro giorni, vivendoli con pienezza e riscoprendo quel senso che, relegato in passato a un ruolo definito esclusivamente dal lavoro, era loro sfuggito. È proprio qui lo snodo sul quale si sofferma la Caramore, quella capacità di andare da una “vita socialmente utile” a una “sensatamente inutile”, esattamente come sono inutili ma sensate la bellezza, l’arte, la musica, la poesia, “una carezza, uno sguardo. Inutile ma necessaria”. È in questo modo che la vecchiaia può diventare una stagione di scoperta al pari dell’adolescenza, per recuperare quello stupore bambino mosso, però, da una consapevolezza adulta. In cui quella che l’autrice chiama “grammatica delle relazioni” è scortata da una nuova sensibilità e da una curiosità fresca, e insieme da quel rispetto per la memoria, per la gratitudine, per il perdono che tanto fanno la differenza.
E se la certezza di non vivere ancora nel migliore dei mondi possibili accompagna la riflessione di Gabriella Caramore nel sottolineare come il tessuto sociale debba necessariamente diventare più accudente e temperare l’endemica nostalgia delle persone anziane, è altresì importante lo spazio che viene concesso all’indagine sulla morte. Senza retorica, con una voce forte e al contempo partecipata dall’esperienza di chi sta compiendo lo stesso cammino con l’obiettivo rendere l’età grande un tempo pieno, allontanandola da una narrazione sterile e rendendola sempre più grata del dono ricevuto e di quella meraviglia che ci può essere e c’è a ogni stagione della vita.
È inverno o primavera? Non lo sappiamo,
siamo
e non siamo niente
nella molteplicità
continua delle apparenze,
però dentro la vita, dentro
il meraviglioso istante
Mario Luzi
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