NUOTO LIBERO DI JULIE OTSUKA
C’è una costante che torna, come una promessa, nei romanzi di Julie Otsuka. Che è, essenzialmente, quella rara capacità dell’autrice di maneggiare le parole, di trattare lo stile narrativo alla stregua di una tela preziosa fino a farla diventare tutt’uno con la trama. Un tratto denso, nobile; un invito a declamare ad alta voce quello che si sta leggendo solo per il piacere di ascoltare la musicalità delle frasi, la costruzione dei periodi, l’uso sapiente di figure retoriche mai fini a sé stesse ma magnificamente articolate con la narrazione.
Non è un caso che questo avvenga anche nell’ultimo “Nuoto libero” (Bollati Boringhieri), un libro che è un’epifania di rara bellezza, pericoloso e invadente, sul quale l’occhio e la mente ritornano mai paghi. E dove l’emotività sguazza, fuor di metafora, libera e feroce.
Un gioco di prospettive in un libro corale
Un libro corale e insieme personale, che proprio in virtù della sua struttura ibrida articola alla perfezione quella tragicità latente che lo percorre. La storia ha inizio, semplicemente, come un catalogo di regole per i frequentatori di una piscina pubblica, un luogo quasi separato dalla terraferma in cui scorre una vita parallela e, a tratti, percorsa da una prospettiva escatologica. La legge silenziosa dello specchio d’acqua sotterraneo è seguita pedissequamente dagli adepti del cloro, un gruppo articolato di nuotatori uniti da rituali e ossessioni ma soprattutto da quella fatica del reale che solo il ritmo continuo delle loro bracciate sembra poter esorcizzare.
Tra questi atleti c’è Alice, “una tecnica di laboratorio in pensione sull’orlo della demenza”, seguita con un occhio più carezzevole dalla voce narrante che ogni volta pare indugiare su quel potere della vasca di preservare una normalità che, nella vita reale, è destinata a disgregarsi un giorno dopo l’altro. Esattamente come succederà alla piscina, violata da una crepa sul suo fondo che, come una ferita, costringerà i nuotatori a rivedere le loro vite. E il narratore con loro, obbligato a spostare il suo punto di vista e a renderlo ancora più affettuoso (e singolare) nel fermare il racconto proprio su Alice e sulla sua personale crepa, compagna non richiesta della sua progressiva e invadente discesa nell’oblio. Parole, oggetti, gesti e ricordi; ma anche il ménage familiare, le storie della sua infanzia e l’eco della guerra in Giappone diventano un elenco ossessivo e ossessionante di dettagli che man mano tolgono il fiato. E lucidità.
Oramai non farà più quel viaggio a Parigi, non diventerà più una letterata (anziché una semplice lettrice occasionale), non potrà più aspirare a parlare bene o anche solo discretamente il francese. Nous sommes désolés. Perché la festa, purtroppo, è finita.
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Quello che, invece, si sottopone a un altro, meraviglioso divertissement stilistico è il romanzo che cambia ancora una volta prospettiva -che è gelida, è straziante, è tragica – ma che non perde la sua profonda vena umoristica e commovente insieme. Starà al lettore districarsi in una dimenticanza che può maneggiare a suo piacimento, senza farsi abbindolare da sentimentalismi stereotipati o, peggio ancora, da un’emotività travolgente. Pagina dopo pagina, come nuotando e seguendo il ritmo tenuto da Julie Otsuka nel quale si nasconde quello della vita stessa.
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