In Balia di Marianna Aprile
Balia è una parola che, da sola, ha molteplici significati. Ambivalenti, spesso agli opposti come nel caso di un termine che, legato a spilla per esempio, rafforza quell’idea di tenere insieme, mentre usato da solo, in balìa, amplifica l’idea di incertezza nel rimanere in qualche modo soggetti alle fluttuazioni esterne che minano le stabilità.
Una finezza linguistica nella quale si ritrova perfettamente l’essenza del romanzo di esordio di Marianna Aprile, giornalista e saggista, che con “In Balia” (edito da La Nave di Teseo) proietta immediatamente il lettore nell’ambiguità di una storia che ha per protagonista Virginia Rocchi, quarantenne freelance, travolta da una routine soffocante che non le permette di avere il controllo sulla propria vita. Ma quanto ne è consapevole? In che modo quel continuo sovrapporsi di scadenze, di contratti centellinati, di andate e ritorni tra Milano e Roma, di compagni fantocci di un’intimità che pare una chimera possono davvero renderla felice?
Semplicemente lei, come altre donne travolte da una frenetica quotidianità dai forti risvolti pratici in cui le scadenze più impellenti sono quelle lavorative mentre quelle della vita privata rimangono silenti in attesa di crollare addosso tutte insieme, non se ne accorge. Fino a un certo punto.
Un romanzo femminile ma non femminista
Ma andiamo con ordine a tracciare le fila di un romanzo femminile – ma attenzione, non femminista, nonostante i personaggi maschili non ne escano granchè bene – in cui la protagonista, giornalista con contratti capestro e retribuzioni al limite del ridicolo, passa il suo tempo a scrivere qualsiasi cosa le permetta di fare fronte alle spese di una vita da sola in una città, Milano, in cui “essere single oscilla tra l’essere un male necessario e l’essere una benedizione. (….) Mangi, cammini, vai al cinema da sola e nessuno lo nota. Non per disinteresse, ma per una sorta di riconoscimento del diritto alla solitarietà come stile di vita. Solitarietà, perché da soli, a Milano, non si soffre praticamente mai di solitudine.”
O per lo meno non dà prova di soffrirne lei, circondata da amici cari ma anche da persone che faticano a restarle accanto e che rendono più difficile dare un senso alle cose. Perché poi ha un senso tutto questo suo correre, questo cercare tra le infinite possibilità la migliore, posto che ci sia, per sè? Il momento di porsi questa domanda coinciderà con il ritrovamento di una spilla da balia sopra un armadio in una casa da lei precedentemente abitata: un semplice oggetto in metallo, avvolto in un pezzo di carta sul quale è scritto “La sua unica colpa è di avere amato un uomo”.
La fedeltà è per se stessi
Una spilla che resterà per anni tra i tesori di Virginia e che poi spunterà fuori nell’attimo giusto per permetterle di cominciare quel viaggio alla ricerca, da una parte, della proprietaria della spilla in un percorso intenso in cui fatti storici si mischieranno a vicende familiari, dissapori non risolti e ferite che, al netto di tutto, non hanno ancora finito di bruciare. E dall’altra quel mettersi sulle tracce di qualcosa che non le appartiene le fornirà il pretesto per ripensare a sé stessa, per rivedere quel suo convulso movimento che, forse, ha bisogno di un attimo di pace.
Marianna Aprile ha scritto un romanzo che le è quasi caduto addosso perché l’aneddoto della spilla è una cosa che lei ha realmente sentito e che ha usato per trasformare un racconto contemporaneo, ricco di tutte le contraddizioni del nostro tempo impazzito e forzatamente dilatato da una frenesia difficilmente ingabbiabile, in uno spunto di riflessione, un invito ad approfittare dell’opportunità di fermarsi per poter finalmente respirare e trovare sé stessi. Cercando quello che realmente vogliamo. Lontani dai giudizi degli altri. Fedeli in primis a sé stessi per eliminare quel senso di soffocamento a volte troppo schiacciante che non ci permette di apprezzare fino in fondo tutta la ricchezza di quello che stiamo vivendo.
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